domenica 27 dicembre 2009

Immaginazione zero

Tra le raccolte di fiabe di Andersen, L’ombra e altri racconti (Orecchio Acerbo, 2005) non è quella più recente. Ma ha un titolo interessante, che rende omaggio a uno dei pezzi meno celebri ma secondo me più perfetti dell’autore danese, L'ombra. Non mi piace, invece, nel titolo, la voce “racconti”: è più bello “fiabe”, non vi pare?

L’ombra è la storia, intelligente quanto divertente, di un uomo che un giorno commette il peccato di scavalcare intenzionalmente con la propria ombra il balcone della casa di fronte, e che anni dopo —questa sarà la sua penitenza— si vede asservito da quella stessa ombra, ormai autonoma. Mi sembra una parabola profetica dei nostri giorni, beatamente affetti da “guardonite”.

La colpa non è dei media, o non è soltanto loro. Si dice spesso che siamo “bombardati” dalle loro indiscrezioni sulla vita privata degli altri; ma se davvero il gossip fosse percepito come una bomba, come un pericolo per noi, sparirebbe per difetto di domanda. Siamo semplicemente “invitati” al buco della serratura; e sono ben pochi a voler rinunciare a quella delizia, a non guardare, a non giudicare.

Eppure quel buco della serratura è un pericolo: c’è qualcosa di noi che rimane appiccicato ad esso, come l’ombra della storia, che una volta che si è introdotta nella casa di fronte si stacca dal suo padrone. C’è qualcosa, quindi, che si stacca da noi e che fa di quello sguardo indiscreto una perdita anziché un guadagno.

Certo, c’è anche l’esigenza di informazione, a tutela del bene particolare e anche del bene comune. E, per esempio, è nell’interesse pubblico che colui che governa (la nazione, la regione...: da noi ce n’è per tutti) sia una persona moralmente accettabile, cosa che invece forse in altri —il dentista, il tabaccaio— non ci preoccupa più di tanto, cioè possiamo passarci sopra senza tante storie. Ma una democrazia guardona, una democrazia cioè che, come si direbbe in gergo, non lascia niente all’immaginazione, è una democrazia al capolinea: cieca, in fin dei conti.

Ed è questo il punto, o almeno uno dei punti: l’occhio del grande fratello vede tutto, ma è interiormente cieco.

L’ombra tocca molti altri temi (la poesia, il potere, la conoscenza, il matrimonio...), e quindi non le rendo giustizia con questa chiosa sbrigativa. Ma penso che Andersen forse sarà contento di vedere rivendicata in questa sede una facoltà, l’immaginazione, che proprio lui ha esercitato in modo esimio.

domenica 13 dicembre 2009

El manuscrito de Fermín

En San Millán de la Cogolla, en un congreso sobre manuscritos literarios que ha habido esta semana y al que me ha enviado mi jefe, me he encontrado con un viejo conocido, Fermín de Aldoz, investigador académico en ciertos frentes recónditos de la literatura española y poeta aficionado. Él y yo nos intercambiamos desde hace tiempo poesías y tentativos literarios de distinto tipo, y al menos yo a él he llegado a apreciarle no sólo como amigo, sino también como poeta.

Naturalmente, Fermín no brilla a la altura de esos grandes faros de la poesía de los que se ha hablado en el congreso: Pedro Salinas, Carmen Conde, Miguel Hernández... Él juega en otra liga, y que no se tome a mal mi sinceridad. Pero, con su autorización, y ya que él no se decide a publicar nada o casi nada, voy a permitirme ventilar desde mi modesta tronera una poesía que me mandó hace bastantes años. Por su evidente ingenuidad y por su latente vibración religiosa, me parece muy apropiada para la circunstancia navideña.

Y ya que estamos, que sepa quien esto lea (si alguien lo lee, porque el paso del manuscrito a la edición no garantiza la lectura del público, y esto es algo sobre lo que en San Millán nada se ha dicho, me parece), que sepa, digo, que el editor de Buenos libros nos dé Dios (y, desde hoy, de este manuscrito de Fermín de Aldoz) le desea una serena y feliz Navidad.

Susurro

Sólo quiero susurrarte,
con un susurro ligero,
no sea que me despierte
y que deje de soñarte,
lo de siempre, que te quiero,
que sólo quiero quererte.

Sólo quiero acompañarte,
hacer mío tu sendero,
compartir tu misma suerte,
abrazarte en cualquier parte,
regalarte el mundo entero,
vivir después de la muerte
sólo pensando en buscarte
para decirte te quiero,
para empezar a quererte,
para que el mundo se aparte
y yo, empezando de cero,
pueda a ti sólo tenerte.

Sólo quiero susurrarte
que una sola cosa quiero:
sólo a ti sólo quererte.

domenica 29 novembre 2009

Luminosidad

A la distancia
exacta, las bombillas
se hacen estrellas.

Al nuevo presidente de la Unión Europea, Hermann Van Rompuy, calvo y aficionado al haiku, seguramente le gustaría éste, que bien se puede leer como un augurio de que, con él al frente de la barraca, las doce estrellas de la bandera europea brillen por fin con luz propia.

No es mío. Lo he encontrado en Casa propia (Renacimiento, 2004), un poemario de Enrique García-Máiquez. Sí, Máiquez: no García Márquez, sino García-Máiquez. Es un libro pequeño, de esos que caben en el bolsillo de un chubasquero y que uno se lleva cuando ha de coger el tranvía y va de manos libres, sin bolsa ni cartera.

Lo leí hace unos días yendo al Rione Monti (tranvía + metro, y a la vuelta lo mismo pero al revés). Me sorprendió su luminosidad: una luminosidad serena, natural, concreta. Porque García-Máiquez no comunica ideas, abstracciones, pildorillas de verdad o de escepticismo: habla de sí mismo, de su propia vida, de su propia mujer, de su propia casa.

Tiene cinco partes: la última, “Buenas noches”, es sobre la muerte y sobre el sueño, dos cosas tal vez distintas que el autor entrelaza sapientemente, sugerentemente, desde sus sentimientos de hombre recién casado. Las partes anteriores conducen hacia ésta. La cuarta es “Y otro día”, y está compuesta por un único poema, el más largo del libro, que celebra la cotidianidad, el día cualquiera, igual a los demás días, de quien atiende por Enrique García-Máiquez. Las otras tres son “Estudio”, “Galerías” y “Las ventanas”, y en ellas hay más referencias periféricas: a la calle, a los lectores, a otros poetas (Cernuda, en primer lugar).

La de Casa propia es poesía doméstica pero también elegante. Depurada y a la vez suelta. Luminosa, como digo, y sin embargo profunda, porque lo que su luz ilumina es la profundidad del alma.

venerdì 13 novembre 2009

Alda Merini: Come in esilio vado a domandare

Alda Merini è morta il giorno di Ognissanti. Per la sua goffaggine, e anche perché nel suo nome (“Alda Merini”) trovo una stimolante somiglianza con il mio, mi è stata sempre simpatica: la vedo come una con cui ho molto in comune. Certo: io, essendo molto più giovane di lei, non ho subito il manicomio, perché in Italia i manicomi sono stati chiusi nel 1978. Lei invece lo ha subito.

“Io trovo i miei versi intingendo il calamaio del cielo”, ha lasciato scritto non so dove. Adesso ecco che in quel calamaio si è tuffata tutta intera. Forse è il caso di ricordare questi toccanti endecasillabi del volume La Terra Santa (Scheiwiller, 1984), che hanno meritato di essere ripresi dieci anni fa tra quelle Poesie di Dio raccolte da Enzo Bianchi per Einaudi.

Io ti chiedo Signore per che passo
dovrei entrare senza più sentire
la tua voce di colpa e di rovina.
E invece approdo sempre alle tue sfere
quando mi mostri il firmamento...
Perché questo tuo incanto o questa frode,
cosa ti costa prendermi nel seno?
Come in esilio vado a domandare
alla luce e al giorno se hanno visto
orma di te lungo le siepi brune.

venerdì 30 ottobre 2009

Un regalo di cresima

Ecco fatto. A. & B. mi avevano chiesto, già prima dell’estate, di fare il padrino del loro figlio F., che si doveva cresimare. E giunto il giorno previsto —il sabato scorso—, ho fatto il padrino. Non solo: ho regalato al ragazzo un libro (tanto per cambiare), La montagna dalle sette balze, di Thomas Merton.

“Non sei obbligato a leggerlo”, gli ho detto (non conosco un altro approccio che possa funzionare con un quattordicenne). “Grazie”, mi ha detto lui con il calore di un iceberg.

Eppure io vado fiero della mia scelta. Ogni libro ha un momento, e per la cresima, secondo me, quello di Merton va benissimo.

Merton è nato a Prades, nella “Catalogna Nord” (in Francia, ma a ridosso dei Pirenei catalani), nel 1915. Ha pubblicato La montagna dalle sette balze, libro autobiografico dal titolo significativamente dantesco, nel 1948, sette anni dopo il suo ingresso in un monastero trappista del Kentucky. Perciò nelle vecchie edizioni c’era in copertina un trappista. Nell’ultima invece (Garzanti, 2006) è raffigurata una distesa infinita di montagne.

Il racconto è quello di uno spirito assetato di senso che si dibatte tra l’Europa e l’America, tra la miseria e il benessere, tra l’idealismo e i cedimenti. Nel 1938, Merton approderà alla fede cattolica nella New York dell’Università di Columbia, delle riviste letterarie e delle attrici di Broadway. Pochi mesi dopo, un amico ebreo (soltanto alcuni anni più tardi diventerà cattolico) lo spinge involontariamente alla trappa, quando un giorno gli spiega che non gli piacciono i cattolici come lui, che vogliono essere “buoni cattolici” ma non sanno cosa sia un buon cattolico. “Avresti dovuto dire che vuoi essere un santo”, gli fa lapidariamente l’amico, a conclusione del suo discorso.

Questa la storia, ridotta al succo. Ma Merton è uno dei grandi poeti americani del Novecento, e La montagna dalle sette balze, come altri suoi libri meno conosciuti (di poesia e di spiritualità, soprattutto), è avvincente forse più per il suo valore letterario che per i suoi contenuti religiosi, pur essendo questi, almeno per me, davvero seducenti.

Un banale incidente domestico troncherà la vita di Merton nel 1968 a Bangkok, dove partecipava a un congresso sul monachesimo. Pochi anni prima, una infermiera conosciuta durante un ricovero in ospedale aveva travolto il suo cuore come ai tempi dell’adolescenza. Il rapporto con lei, non intimo ma comunque incompatibile con la sua scelta di vita, ha avuto un lieto fine, per così dire: il lieto fine che il suo abate ha forzato quando, dopo vari tentativi vani di dissuasione, gli ha detto determinatamente di non sentire più quella donna. Con questa aggiunta: “Non è un consiglio, è un ordine”. E Merton, che naturalmente era stato cresimato e quindi era “soldato” di Cristo, ha obbedito.

Questo, comunque, La montagna dalle sette balze, che è anteriore, non lo racconta.

venerdì 16 ottobre 2009

Apocalypse... how?

En la novela con la que ganó el premio Pulitzer hace dos años, La carretera, Cormac McCarthy presenta su apocalipsis americano (la vida después de un holocausto nuclear) como una especie de universo de signos del que las sustancias se han escurrido: “el sagrado idioma desprovisto de sus referentes y por tanto de su realidad”, las bibliotecas que no dicen más que mentiras, un copo de nieve que expira en la palma de la mano “como la postrera hostia de la cristiandad”.

En la América post 11-S, una perspectiva de ese tipo es inquietante, y quizá por eso McCarthy, escritor alérgico al media system, concedió una entrevista sobre el tema a Oprah Winfrey. Yo empecé a verla y me aburrí, pero, por si a alguien le interesa, está en YouTube (troceada: o sea, en varios vídeos distintos que hay que ir viendo uno detrás de otro).

Por supuesto, lo interesante en La carretera (Mondadori, 2007) no es su historia, sino su filosofía de la historia. Dios ha creado todas las cosas para que sean, dice el libro de la Sabiduría, pero he aquí que los hombres nos hemos empeñado en aniquilarlas: en hacer que dejen de ser, en cargarnos el mundo. Y éste es un gran tema filosófico: un gran tema de filosofía de la historia en su sentido más profundo.

Recuerdo vagamente una antigua lectura, El fin del tiempo, de Josef Pieper, un filósofo tomista. Al término de la segunda guerra mundial, un cierto nihilismo camuflado de existencialismo había desplegado ante los ojos de la humanidad el escenario hipotético de la nada, que la experiencia de la bomba atómica —una experiencia entonces muy concreta— hacía perfectamente coherente. Pieper aceptó el reto y acometió en aquel libro, desde su punto de vista teológico, la problemática de la aniquilación del mundo.

Si la memoria no me traiciona, lo que venía a decir Pieper es que el Apocalipsis verdadero, es decir, el libro con el que se cierra la Biblia, presenta el fin del mundo en una óptica muy distinta, pues no habla de destrucción del mundo, sino de “un cielo nuevo y una tierra nueva”. Y a esa nueva tierra, sostenía Pieper, se llega no por la aniquilación de la actual (pues Dios crea para que las cosas sean), sino por su transposición fuera del tiempo. Es decir, la annihilatio no resulta admisible teológicamente.

Así sea. Pero, ciertamente, la historia lo está poniendo difícil. Se entiende que Cormac McCarthy parezca interpretar las cosas de otra manera.

domenica 27 settembre 2009

Juan Manuel de Prada: San Chesterton

En Alfa y Omega, Juan Manuel de Prada propone canonizar a Chesterton, a quien atribuye el milagro de su conversión. Éste es su panegírico, mínimamente abreviado.

Un santo de peso

(...) Como aquellos pescadores analfabetos que un día abandonaron sus barcas, tras escuchar las prédicas de Jesús, muchos lectores de Chesterton hemos sentido, después de leer uno de sus libros, que en sus delicias paradójicas, en su luminoso afán polemista, en sus piruetas teológicas y en sus malabarismos poéticos se cifraba una «emborrachadora verdad que danza y juega», la verdad de la fe cristiana. Y el sabor suculento de esa verdad no nos ha abandonado ya nunca.

Con mi añorado amigo don Eugenio Romero solía conversar sobre Chesterton. (...) De que Chesterton fue santo a ninguno de los dos nos cabía duda alguna: sólo la santidad puede transmitir al arte esa buena salud mental, ese sentido común bienhumorado y aplastante, esa alegría de comprender, de convencer, de disputar que descubrimos en las obras de Chesterton; sólo la santidad puede convertir el catecismo en una novela de aventuras, la teología en una intrépida epopeya, la devoción a la Virgen en un poema romántico. Chesterton estaba poseído de ese amor matinal por la Creación que sólo bendice a los santos; y se pasó la vida entera celebrando todo lo visible y lo invisible, con la exultación de un niño que se hubiese emborrachado con el vino de las bodas de Caná. Decía el gran Leonardo Castellani que Chesterton «tuvo la sabiduría del anciano, la cordura del varón, la combatividad del joven, la petulancia del muchacho, la risa del niño y la mirada asombrada y seria del bebé»; lo cual es tanto como decir que fue un santo, esto es: todo un hombre.

Chesterton fue el poeta del sentido común disfrazado de sinsentido, el príncipe de la sensatez disfrazada de locura. En Chesterton, la verdad se pone a hacer cabriolas, se carcajea de las viejas herejías que nuestra época vende como ideas nuevas, se pasea por el mundo jugueteando con todo lo que pilla, como un niño juguetea con el reloj de su padre. Chesterton destripaba todos los relojes que hallaba a su paso; pero, increíblemente, lograba recomponerlos de tal manera que, a partir de entonces, no se conformaban con medir el tiempo, porque el tiempo es asunto baladí cuando se descubre que los hombres estamos habitados de eternidad.

Fue el más sagaz, divertido y luminoso apologeta de la fe católica; fue un titán de la pluma tocado por la Gracia; fue un poeta que entendió que la fe es, ante todo, exultación y gozo ante las bellezas menudas y descomunales de la Creación. Está pidiendo a gritos que le hagan un hueco en los altares; pero habrá de ser, necesariamente, un hueco espacioso y con una sólida peana, porque, además de santo, Chesterton era un gordo como Dios manda, un gordo con una alegría de vivir de tonelada. Juan Manuel de Prada

domenica 13 settembre 2009

Jack London scrive su se stesso

Martin Eden, di Jack London (1876-1916), è forse uno dei romanzi cha ha segnato più profondamente la letteratura americana contemporanea. Pubblicato nel settembre 1909, compie adesso cent’anni.

London era appena tornato in California dopo due anni di assenza: il primo, in viaggio per i mari del Sud con lo Snark, una grande barca a vela che si era fatto costruire e con cui intendeva fare il giro del mondo accompagnato dalla moglie e da un ridotto equipaggio; il secondo, recuperando le forze in Australia, dopo un fallimento clamoroso del progetto all’altezza delle isole Salomon.

Ma London sapeva far fruttare letterariamente i suoi fallimenti. Dieci anni prima, il drammatico insuccesso della sua incursione nello Yukon, durante la febbre dell’oro, lo aveva formato come scrittore in quel filone epico naturistico da cui subito sarebbe emerso Il richiamo della foresta (1903). Adesso il disastroso viaggio sullo Snark gli era servito per scrivere in alto mare un altro capolavoro.

Martin Eden, di cui Mondadori ha appena sfornato una nuova edizione italiana, è un romanzo in larga misura autobiografico in cui l’autore regola i conti con un certo mondo: proprio con quella cerchia borghese che, bene o male, gli aveva facilitato (a lui, il ragazzo povero) l’accesso all’olimpo della cultura. Questo, per la verità, è l’aspetto meno nobile del libro. Il personaggio di Ruth Morse, per esempio, una ragazza volubile e sentimentale, è un ritratto caricaturale di Mabel Appelgarth, la prima fidanzata di London, gravemente affetta da tubercolosi ai tempi dell’apparizione del romanzo.

Chi è Martin Eden? È Jack London, naturalmente: il singolo che si fa da sé, solo contro tutti, edenico nella sua asocialità (il nome Martin Eden non fu scelto a caso) e, al contempo, nietzschianamente oltreumano. In questo senso, Martin Eden (ma anche, più a monte, lo stesso Jack London, con la sua vita) è una sorta di prototipo di quella specie di uomo off limits, aldilà del bene e del male, debellatore degli déi, tipico dei nostri giorni.

Certo, Jack London non era credente. “Occupation: Sailor. Religion: Atheist”. Sono dati della sua scheda di ingresso in una prigione dello stato di New York, dove una volta era stato arrestato per vagabondaggio.

Forte, questo London! Devo dire che a me gli atei non sono antipatici. Anzi, li preferisco agli agnostici, perché secondo me su certe cose non si può essere indecisi. Uno può lasciare in sospeso il proprio giudizio sulle corridas di tori o sul cinema di Ridley Scott, e impostare la propria vita a prescindere da un preciso criterio su tali materie; ma non mi sembra onesto vivere senza pronunciarsi pro o contro l’esistenza di Dio, perché il fatto che Dio esista o non esista cambia tutto.

London è onesto, ecco, almeno in questo senso. Anche perciò, lui come me dovrebbe ammettere, pascalianamente, che comunque Dio non cessa di esistere per il fatto che qualcuno non creda in lui.

domenica 30 agosto 2009

Sulla letteratura femminile

La casa editrice Sellerio compie quarant’anni, e per celebrarlo vara una nuova collana, “La rosa dei venti”, con alcuni titoli emblematici che ha stampato nel corso di questi quattro decenni. Tra i primi dieci (si annuncia una seconda serie di altri dieci) c’è La casa nel vicolo, di Maria Messina.

Si tratta di un piccolo capolavoro. Sellerio va fiera di aver lanciato Camilleri, ma molto più fiera può andare di aver riscoperto Maria Messina. Scrittrice di successo, ancora giovane, nel secondo e nel terzo decennio del Novecento, la sua carriera è stata troncata da una forma terribile di sclerosi con cui ha dovuto convivere per lunghi anni. Dimenticata da tutti molto prima della morte (1944), soltanto nel 1981 qualcuno penserá a lei: appunto Sellerio, con la pubblicazione di un volume, Casa paterna, contenente tre racconti corredati da una bella nota editoriale di Leonardo Sciascia, che la definisce la Katherine Mansfield siciliana. Poi verranno altri volumi, e Maria Messina riprenderà un po’ il posto che le spetta nelle lettere italiane e internazionali (infatti le traduzioni non sono mancate in questi anni).

Di Maria Messina mi affascina la bravura a far parlare i suoi presonaggi non soltanto con le loro parole, ma anche, per esempio, con i loro silenzi: “Nel profondo silenzio che riempì la stanza, passarono amare parole non dette”.

O anche con azioni e pensieri in cui freme, semplice e tremendo, il sangue. Antonietta, la sorella di Nicolina, è stata tra le grinfie della morte durante il parto di una bambina, e i pensieri di Nicolina diventano cupi alla vista della neonata, che dorme con i pugni chiusi: “Che mai teneva nei piccoli pugni chiusi? Forse la felicità... Ognuno di noi, nascendo, stringe i pugni per non lasciarsi sfuggire un bene che non ritroverà mai più...”.

Fa parlare il sangue, infatti, Maria Messina. Sangue che tramanda miti ancestrali di generazione in generazione e che pulsa nei singoli cuori in modo soffertamente violento. Sangue soprattutto di donna, come in questo caso. Anche perché quella della Messina è letteratura femminile nel senso più puro del termine: cioè non soltanto rivolta alla donna, ma scritta da donna e riguardante una donna. Anzi, riguardante la donna.

“«Fosse almeno un maschietto» si disse. La sua sorte sarebbe stata più facile. Le donne sono nate per servire e per soffrire. Non per altro”.

Semplice e concludente, non è vero? Che dire? Che Nicolina ha ragione, naturalmente. Che per troppo tempo la donna è stata consegnata a un destino indegno in questo mondo.

E che a farne le spese non sono state soltanto le donne, ma tutti: gli uomini e le donne. Come sarebbero andate le cose, per esempio, se nella prima metà del secolo scorso fossero state donne, anziché uomini, a governare in Germania, in Russia, negli Stati Uniti, in Inghilterra...? Sono convinto che non avremmo avuto due guerre mondiali.

Largo alla donna, dunque. Almeno, per provare a cambiare qualcosa, visti i disastri che noi uomini abbiamo combinato.

sabato 15 agosto 2009

Zagajewski: llamémoslo poesía

“En la niñez, algunos árboles susurraban incluso en los día sin viento”. Es una frase con la que he topado en el curso de la lectura de En la belleza ajena, de Adam Zagajewski (Pre-Textos, 2003).

En la belleza ajena es un libro inclasificable de recuerdos y reflexiones que tiene por escenario Cracovia, una de las ciudades de mi lista de cosas por ver.

A Cracovia llegó en 1963 un joven Zagajewski para estudiar en la universidad. Pero, naturalmente, el de la formación universitaria no es el único sentido en que se puede decir que En la belleza ajena es el Bildungsroman —la novela de formación— del propio Zagajewski.

Escribe Zagajewski: “Una particularidad feliz de la juventud —en especial de la juventud del artista— es la casi inocente divinidad de los instantes de entusiasmo, los primeros descubrimientos, los primeros febriles momentos de alegría a la vista del tejado del mundo, que va elevándose ligeramente y va descorriendo el velo del misterio. ¡Oh, inocente alegría! Las puertas se abren, siquiera durante un momento, y aparece la luz. Y nosotros somos aún tan jóvenes que nos basta el entusiasmo; todavía no preguntamos por su sentido y por su lugar en el espeso tejido de la comunidad humana; aún somos como un jugador que gana una suma colosal y no se pregunta qué hará con ese dinero”.

Zagajewski, hay que saberlo (también para entender el título de su libro), es un apologista de la belleza y de la verdad: de todo eso tan básico que hoy se niega o se relativiza (Zagajewski va claramente contra corriente) y que a él le gusta unificar bajo el término de “poesía”, pero que también llama, con frecuencia, “fervor” o “entusiasmo”.

Escrito desde la atalaya de la madurez, En la belleza ajena es una revisitación constructiva del entusiasmo juvenil: “Después, con cada paso y cada nueva revelación, irá creciendo la inquietud, y la pregunta de qué es ese entusiasmo, de dónde viene y, sobre todo, con qué sentido llenarlo adquirirá poco a poco mayor importancia. Porque el entusiasmo se nos da, pero su significado tenemos que encontrarlo nosotros mismos, construirlo. Con la desesperanza ocurre al revés: parece ofrecernos —¡y de buen grado, sin que se le pregunte!— cada vez más explicaciones a medida que pasan los años”.

Hoy no es frecuente encontrar palabras tan luminosas. Por si hubiera alguna duda, aclaro que estoy con Zagajewski: con el partido de la poesía.

“¿Qué une la poesía y la música? La poesía”. Es otra cita de En la belleza ajena.

venerdì 31 luglio 2009

Cambio de casa

“Better pass boldly into that other world, in the full glory of some passion, than fade and wither dismally with age”. Es una de las citas más socorridas de la literatura del siglo XX: de Los muertos, el cuento más famoso de Joyce y el último del volumen Dublineses. En la traducción de Cabrera Infante: “Mejor pasar audaz al otro mundo en el apogeo de una pasión que marchitarse consumido funestamente por la vida”.

Ayer fue la misa de trigésimo de mi hermana Inés. Tras un año de lucha a brazo partido, un cáncer insidioso pero aparentemente no indomable (sólo la última semana la tuvo hospitalizada) se la llevó el 30 de junio. Tenía 44 años.

Curioso cómo ahora, viendo las cosas a posteriori, te das cuenta de que en el fondo te estabas preparando para esto. “No tiene buena pinta”, “hay que rezar”...: frases de este tipo nos intercambiábamos entre padres e hijos, entre hermanos, entre parientes, entre amigos, a pesar del optimismo en que iban envueltas siempre las noticias.

“Quizá sea la última vez que la vea”, le dije a Isa hace unos meses, poco antes de un breve viaje a Madrid. “¡No!, ¡qué dices!”, me respondió. Bueno, pues sí, fue la última vez que la vi con vida.

Se veía venir. Otra cosa es que no quisiéramos mirar. Se veía venir, y sin embargo el zarpazo de la ausencia duele.

Ha cambiado de casa, me ha dicho Enrico, un amigo. Ya. “Decía un alma ambiciosa de Dios: ¡por fortuna, los hombres no somos eternos!”. Son unas palabras de Josemaría Escrivá de Balaguer que seguramente consideró más de una vez en sus últimos días de vida (en ella el Opus Dei era parte sustancial de esa “passion in its full glory” que en cristiano se llama vocación).

Ha cambiado de casa... Bien, y yo en esa nueva casa, ¿quién soy para ella? ¿Qué estará contando de mí?, me pregunto. ¿Se acuerda de cuando le hice ir de una punta a otra de Madrid (ella vivía en Madrid) para recoger un papel absurdo, o bien de cuando, siendo niños, le ayudé a salir de una acequia en la que se había caído? Calculadora como era (en la universidad se había especializado en cálculo automático, y en eso trabajaba), seguro que ha sacado mi saldo.

Me da no sé qué mezclar su recuerdo con el de Joyce, pero he de reconocer que en esa frase de Los muertos hay una gran verdad que tiene que ver con ella.

venerdì 17 luglio 2009

Un oracolo italoamericano

Ok, allora riprendo. Potete annunciarlo, se volete: potete dire “a grande richiesta, alf torna sul web”, o qualcosa di simile, come negli spettacoli teatrali. Solo che non è vero, perché la richiesta non è stata grande.

È stata piuttosto ridotta, ma le persone che l’hanno sostenuta sono di quelle a cui non saprei dire di no, e quindi almeno per ora mi devo piegare al loro volere. Mi concedono comunque di spaziare di più i post, e lo farò, perché per me la cadenza settimanale è troppo impegnativa: ho parecchio da fare.

Oggi parlo di musica. Ecco qua, nella foto, una delle mie cantanti preferite, Natalie Merchant. Americana di origine italiano (aver anglicizzato il suo cognome, Mercante, è per ora l’unico difetto che le riconosco), ha cantato negli anni ottanta nei 10000 Maniacs per poi mettersi in proprio.

Retrospective (1995-2005) è una antologia del suo percorso in solitario. Not In This Life, Break Your Heart e Owensboro (le due prime scritte da lei, la terza arrangiata a partire da un brano tradizionale) sono le canzoni che mi sono piaciute di più.

La sua voce ha un timbro metallico tanto dolce quanto fermo, e chi, come me, ha una vocina asfittica non può che invidiarla.

Simone Weil ha un testo molto suggestivo sul potere della parola, tradizionalmente rimasto, in tutte le culture, in mano alla classe sacerdotale. Infatti nel nostro immaginario una voce come quella di Natalie Merchant diventa oracolo, appare come una sorta di leva di controllo di un certo ambito di verità vietato ad altri. E mi sa che Natalie Merchant, per l’energia e la convinzione con cui interpreta le sue canzoni, ne è consapevole.

venerdì 26 giugno 2009

Monte Corvo (poesía)

Tantas vaguadas, un valle,
tantos remansos, un mar,
tantos sueños, un destino,
tantas campanas, un Dios.

Tantas ventas, una casa,
tantos retratos, un tú,
tantos suspiros, un beso,
tantas flores, una flor.

Tantos versos, una pena,
tantas banderas, un rey,
tantos otoños, un roble,
tantas auroras, un sol.

Tantos vientos, una barca,
tantas palabras, un sí,
tantas ventanas, un cielo,
tantas voces, una voz.

sabato 20 giugno 2009

No es fácil, pero...

Llega el final de curso y, un año más, los periódicos hablan del fracaso escolar. Bien me parece. Sin embargo, hay otro fracaso más extendido y más grave del que hablan mucho menos y con el que pienso que sería todavía más necesario enfrentarse: el fracaso matrimonial.

Acabo de conocer en Barcelona a un africano que ha pasado un año en una ciudad española, trabajando y, a la vez, adquiriendo experiencia para luego, a la vuelta a su país, ponerse al frente de una iniciativa educativa en la que tiene puestas muchas ilusiones. Está enamorado de la pequeña capital de provincia en la que ha estado viviendo y dice muchas cosas buenas de España..., pero le sorprende la cantidad de matrimonios rotos que ha visto.

Tiene razón. Es una realidad que no deberíamos asumir como si nada.

Ya que estamos, resulta que hoy mis padres cumplen sus bodas de oro: para que conste que llegar a ese hito no es un imposible. Lo estamos celebrando como Dios manda, faltaría más.

Aventuras de una familia es un libro escrito por una cooperativa de ocho autores los ocho hijos de la feliz pareja que cuenta en cincuenta capítulos y al menos en otras tantas fotografías la historia de estos cincuenta años, e incluso de los anteriores.


Tiene alguna analogía con un libro que he leído hace poco, Bon dia, pare, memorable testimonio que Ramon Folch i Camarasa escribió hace cuarenta años sobre su padre, el también escritor Josep Maria Folch i Torres (el Andersen catalán), que tuvo no ocho sino diez hijos. Hombre, tiene también ciertas diferencias que lo hacen no tan memorable: primero, que su autor no es un escritor profesional, sino ocho aficionados (si llegamos a eso); segundo, que afortunadamente no se va a difundir comercialmente, sino sólo en la intimidad familiar. Además, naturalmente, su tono no es tan elegíaco como el de Bon dia, pare.
Por mi parte, claro, no estaría bien criticar el libro. Lo mejor que puedo decir de él es que ha sido escrito con gratitud y buena voluntad. A mí me sirve, además, para pasar a quien esto lea el mensaje de que sí, de que es posible comprometerse para toda la vida y mantener toda la vida el compromiso dado. No es fácil, desde luego. Pero ¿desde cuándo los hombres nos hemos contentado con hacer sólo cosas fáciles? Todos hacemos, más pronto o más tarde, algunas cosas difíciles, ¿no?: pues que sean las importantes. ¡Ánimo!

venerdì 12 giugno 2009

Riflessioni di un catacombaro

A pochi passi da casa c’è una catacomba: una delle tante catacombe romane chiuse al pubblico. E alcune settimane fa ho avuto occasione di perlustrarla con una quindicina di amici. Fa impressione: ha una grande basilica ipogea, affreschi, mosaici, nicchie a perdita d’occhio con ossa dei primi secoli dopo Cristo... Per visitarla si deve ottenere un’autorizzazione della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra, che predispone la presenza in loco di un addetto, e pagare cento euro, per cui, naturalmente, più gente c’è meno paga ognuno (ma c’è un limite: appunto quindici persone).

Con i suoi tre piani di gallerie, quella catacomba mi ha fatto pensare alla Divina commedia: inferno, purgatorio e paradiso. Non solo: nella catacomba sono entrato dal giardino di un normale villino unifamiliare, un po’ come Dante ha iniziato la sua discesa nell’aldilà; e similmente a quel percorso, che ha riportato Dante tra i suoi cari, così la catacomba, per quanto ho saputo una volta dentro, estende i suoi tentacoli fino ad arrivare... quasi sotto la mia casa.

Infatti, la Divina Commedia va letta così: non è terra incognita, come dicevano gli antichi esploratori, è il proprio, intimo, personale sottoterra, di Dante e di tutti noi. Non vorrei incomodare nessuno, ma in questo ultimo post (come annunciavo la settimana scorsa, sto chiudendo il blog) forse è il caso di essere, una volta tanto, un po’ apocalittici.

Essere apocalittici è parlare della fine del mondo, ma anche del dopo. Per esempio, del paradiso.

Dante dice che ciò che là si vede non può essere riferito, “perché appressandosi al suo disire / con l’intelletto si profonda tanto / che dietro la memoria non può ire”, cioè perché la volontà (il desiderio, il “disire”), e con essa l’intelletto, ne sono attirati con una tale forza che la memoria resta dietro, incapace di registrare quelle meraviglie. Che delle tre potenze dell’anima (memoria, intelletto e volontà) sia la memoria ad avere la peggio non mi stupisce: tra l’altro, san Giovanni della Croce dice che “alla sera della vita saremo esaminati sull’amore”, cioè sulla volontà. Ma è singolare che lo dica proprio Dante, che con tanta cura ricorda i torti che gli hanno fatto i suoi nemici, collocati sempre, non per caso, nell’inferno.

Comunque a me sta bene che invece nelle vicinanze di Dio la memoria non conti più di tanto; e soprattutto che Dio stesso sia un po’ smemorato, se —così ci dicono— è la misericordia (la disposizione a perdonare) l’attributo più genuino di colui che muove il sole e le altre stelle.

venerdì 5 giugno 2009

Cosmos e logos

George Steiner tocca in Grammatiche della creazione (Garzanti, 2003) molti temi. Ma il filo del suo discorso mi è sembrato, in sostanza, lo stesso della sua opera più nota, Vere presenze (1986): la creatività umana, anche se spesso aspira a proclamarsi autonoma, non lo è affatto. Malgrado tutti i tentativi di spogliarla di vincoli oggettivi tramite teorie del linguaggio, decostruttivismi e altro ancora, ha sempre dietro un referente reale (una presenza vera). Anzi, senza una grammatica codificata nel reale, non c'è creatività.

Ed è a questo punto che la cosa diventa seria. Torna anche in Grammatiche della creazione, come in Vere presenze, il grido ontologico di Steiner, ultima Cassandra di Occidente, di fronte all'attuale processo di rottura di quella alleanza tra cosmos e logos su cui la nostra cultura si è retta fin dalle sue origini. Ma adesso questo grido è più esplicito e, al tempo stesso, più rassegnato.

Più esplicito, perché punta il dito senza mezzi termini sull’abbandono della categoria metafisica e teologica di creazione come negazione coatta della possibilità di creazione umana. Più rassegnato, perché non vede alcuna possibilità di uscita da questo vicolo cieco. “La fine della creazione”, anziché Grammatiche della creazione, potrebbe essere il titolo di questo libro (penso soprattutto agli ultimi capitoli). Insomma, dice Steiner, la letteratura e l’arte sono al capolinea. E io in parte sono contento, perché allora devo mandare in soffitta anche questo blog, che, diciamo tutto, dopo quasi due anni di attività forse è diventata merce scaduta, non vi sembra?

Eppure qualche spiraglio per la creazione c’è, secondo me.

A un certo punto, Steiner parla dell’apparizione del movimento Dada e del suo ruolo nel processo di scissione tra discorso letterario e ordine razionale del mondo (e quindi di autoannullamento della creatività), a partire da un poema senza significato riconoscibile che ha scritto Hugo Ball nel 1916:

hollaka hollala
blago bung
blago bung
bosso fataka
ü üü ü

Ebbene, Hugo Ball, che nel 1916 rifiutava platealmente quel mondo assurdo e inumano (siamo ai tempi della grande guerra), è stato successivamente, fino alla sua prematura morte, un cattolico fervente.

Il dato può essere poco significativo per un agnostico come Steiner, ma per me è rivelatore di come la trascendenza non è legata a ciò che di essa possiamo pensare noi uomini. E lo stesso si dica, naturalmente, di quella costola della trascendenza che chiamiamo creatività, sempre in attesa di nuovi esploratori di vere presenze.

sabato 30 maggio 2009

El río

Mi generación tuvo El Jarama, de Rafael Sánchez Ferlosio, como lectura escolar obligatoria. Me gustó entonces, en la adolescencia; y cuando lo he releído, al cabo de muchos años, ha vuelto a gustarme: contrariamente a lo que otros han escrito, a mí su técnica fenomenológica, objetivista, no me parece ni sesgada ni insulsa.

El Jarama comienza con una breve descripción (pocas líneas) del curso del río Jarama desde su nacimiento hasta el punto en que se cruza con la carretera nacional de Madrid a Barcelona, a dieciséis kilómetros de la capital. En ese lugar se desarrolla la acción de la novela, que tiene casi cuatrocientas páginas y dura un solo día: un domingo. Terminada la jornada, el libro reanuda la descripción del río (otras pocas líneas), hasta su desagüe en el Tajo y finalmente en el océano Atlántico.

El río es imagen de la vida. Es fluidez y sinuosidad. Es un presente que está determinado por el pasado y que a la vez determina el futuro. Y el recodo del río Jarama en el que se coloca la novela es imagen del recodo de la vida que representa, para cada personaje, ese domingo de agosto: un punto de la trayectoria por la que la vida les lleva.

Once jóvenes de un barrio obrero madrileño van a pasar el día al Jarama. Cada uno es cada uno, distinto de los demás. Sin embargo, los registros individuales, aunque reconocibles, quedan como en sordina, integrados en una personalidad colectiva, coral, que es la verdadera protagonista de la novela. Del retrato de conjunto emerge implícitamente la crítica: el retrato, realista y deliberadamente distanciado, es el de una sociedad pobre sobre todo en expectativas.

Más aún, el modesto horizonte del día de fiesta en el Jarama acabará trágicamente. En ese momento aparecerán otros personajes (unos estudiantes universitarios —entonces una casta minoritaria—, un juez, unos guardias civiles) que acentuarán el contraste entre la realidad social, representada por el "coro" de jóvenes obreros, y la insensibilidad oficial.

Sánchez Ferlosio publicó El Jarama con sólo 27 años, en 1955 (la foto, en la que sale con Carmen Martín Gaite, entonces su mujer, es de ese año). Ha pasado medio siglo y la novela se sigue leyendo: su última edición es de hace pocos meses (Destino, 2009).

Como el río del que toma el nombre, ha rebasado la época que retrata y sigue su curso hacia nuevos recodos de la historia: como el actual, no menos avaro de fe en el futuro y no menos necesitado de un despertador moral.

venerdì 22 maggio 2009

La figlia del filosofo

Un giorno Vittorio Varvaro si accorge che la sorella Sofia, ventenne, va a messa tutti i giorni; non solo: ha aderito all’Opus Dei, una cosa nuova a Palermo, e intende dedicarsi intensamente ad essa. Fatti suoi, pensa Vittorio democraticamente.

Ma il loro padre non è come lui. Paolo Varvaro è un filosofo, scrive libri su Platone e teorizza nei suoi quaderni cose varie, tra cui l’ateismo. Parla poco, ma è determinato. E così su Sofia, a motivo della sua scelta di vita, si abbattono non le parole del padre, ma i suoi silenzi, molto più duri, molto più taglienti.

Dopo quasi mezzo secolo, l’ottantenne Vittorio Varvaro dà alle stampe La breve storia di Sofia (Ares, 2009), libro di una sincerità talvolta brutale di cui Sofia Varvaro (1941-1972) è non soltanto protagonista, ma anche coautrice.

Infatti le sue lettere occupano più della metà del libro: lettere alla mamma, a fratelli, cognate, nipoti..., e anche al padre, sebbene Sofia sappia che lui, irremovibile nella decisione di rompere tutti i rapporti con lei, non le aprirà nemmeno (dopo la sua morte, nel 1982, saranno rinvenute nelle loro buste ancora chiuse). Alcune sono bellissime e fanno di Sofia, che morirà di cancro giovanissima, una ispirata donna di lettere (è il caso di dirlo). Per esempio questa, scritta da Milano il 24 dicembre 1967:


Carissimo papà,
notte di Natale. Sono sola in casa e vorrei avvicinarmi a te. Tutto intorno, silenzio. È l’atmosfera in cui meglio ci muoviamo tu e io, specialmente quando cerchiamo di incontrarci. Come stai? Scrivi molto? Cosa? Ti tiene abbastanza compagnia il tuo lavoro o ti senti spesso più solo che abitualmente?
Stanotte è festa. Chi crede, ricorda uno splendido mistero: “Il Verbo si fece carne ed abitò fra noi”. Dio è con noi.
“Se io credessi in Dio, mi perderei in Lui”. Parole lette una volta ma che non riesco a dimenticare. Sono per me una speranza (...). Quanti di quelli che credono non hanno ancora capito che bisogna perdersi, e tu che lo hai capito non puoi credere. Perché? Non so. Io sto solo provando a credere sempre più veramente, giorno dopo giorno, per imparare a perdermi e a trovarmi.
Comunque, tu devi poter capire che è incredibilmente bello che Dio si sia fatto carne per svelarsi a noi e per svelarci sé stesso. C’è di che gioire e di che stare in silenzio, di che cantare e di che fare follie (...).
Tu non lo sai, ma io ti dico un segreto: io
voglio vedere Dio. Si può aspettare a vivere una vita pur di arrivarci, di arrivare a essere in Lui, a sapere cos’è Dio e a possederlo. Sono questi i miei desideri, da non dire a nessuno. Solo a Lui e a te, che rimani in silenzio e non sciupi —divulgandoli— i segreti.
Buon Natale, papà (...). Auguri! Vorrei che li ascoltassi e me li ricambiassi (...).
Ricordati ogni tanto di me. Ho ancora bisogno di te.

venerdì 15 maggio 2009

Le avventure di un poema

Me l’hanno regalato a Natale, ma l’ho letto soltanto adesso: Un altro tempo (Adelphi, 2004, con testo inglese a fronte), di W.H. Auden. Un buon regalo, lo ammetto.

Pubblicato per la prima volta nel 1940, Un altro tempo è una raccolta che fa i conti con un momento di svolta nella vita dell’autore. Nel 1939 Auden, trentunenne, ha lasciato l’Inghilterra e si è trasferito negli Stati Uniti. Inoltre ha cominciato a rivedere tutti i suoi schemi mentali e a riavvicinarsi alla religione. Dalla sua nuova posizione il periodo precedente, la seconda metà degli anni trenta, gli sembra, appunto, un altro tempo.

Era stato il tempo della militanza, che lo aveva portato non solo a una poesia impegnata, ma anche a gesti insoliti. Nel 1936, per esempio, Auden, che tra l’altro era omosessuale, aveva sposato nominalmente Erika Mann, la figlia dell’autore dei Buddenbrock, profuga dalla Germania, per consentirle di ottenere la cittadinanza britannica.

In Un altro tempo c’è Spain 1937, uno dei poemi più famosi di Auden (è reperibile online in inglese). Nel ’37 Auden era andato in Spagna per aiutare la Repubblica, e al ritorno in patria (dopo poche settimane di non guerra, diciamo la verità, perché era rimasto sempre lontano dai combattimenti) ha scritto quella lunga, pulsante, coinvolgente poesia. Con le sue immagini epiche e i suoi ritornelli imperniati sui flussi temporali (“ieri...”, “domani...”, “ma oggi...”), è diventata subito molto popolare, e non poteva non essere ripresa in Un altro tempo. Ma siccome i tempi erano altri, Auden l’ha ripresa con qualche cambiamento.

Nella versione originale, la quartina 23ª (che poi sarà la 21ª, perché due quartine verranno soppresse) iniziava così:

“Oggi il deliberato aumento dei rischi di morte;
la conscia accettazione della colpa nell’omicidio necessario...”.

In Un altro tempo, invece, inizia così:

“Oggi l’inevitabile aumento dei rischi di morte;
la conscia accettazione della colpa nei casi di omicidio...”.

Sembra che sia stato George Orwell, che aveva fatto pure esperienza della guerra in Spagna, a suggerire quelle modifiche, che attenuano la brutalità, l’irrazionalità delle asserzioni originarie.

Ma c’è di più: nel 1966, Auden ha ripudiato in qualche modo quella poesia, lasciandola fuori dalla sua silloge canonica (Collected Shorter Poems 1927-1957).

Eppure passano gli anni e il poema è sempre ristampato, commentato, celebrato da tutti.

I fatti, singolari per un poeta ritenuto da molti il più grande in lingua inglese nella stagione successiva a Eliot, sono stati ricostruiti in modo esauriente in uno degli ultimi numeri della rivista Adamar.

venerdì 8 maggio 2009

Otra novela póstuma de Irène Némirovsky

El manuscrito de El ardor de la sangre fue hallado en un archivo hace dos años. Como Suite francesa, rescatada en 2004, se trata de una novela inédita de la que, tras la trágica muerte de su autora, Irène Némirovsky, no había quedado ningún rastro.

El ardor de la sangre (Salamandra, 2007) está ambientada en el medio rural, lo que hace más genuino, más bárbaro, ese flujo interior que sus personajes experimentan, ese fuego que en el lenguaje común solemos denominar, estereotipadamente, deseo o pasión. “La piena del sangue”, la sangre fuera de madre, lo llama Paola Capriolo. Sí, a veces ese fuego devorador se lleva por delante víctimas inocentes: un marido incómodo, por ejemplo.

Se trata de una fuerza tremenda, potencialmente devastadora, pero no rara, sino bastante universal. Eso sí, cada uno la metaboliza de modo diferente. Entre los personajes de la novela, algunos se quedan hechizados, eternamente acartonados por las llamas juveniles, y son ya inútiles para el amor. En cambio Hélène (nombre muy parecido a Irène, por cierto), que en la juventud, como todos, ha conocido el deseo, se demostrará capaz de amar, llegado el momento: capaz de orientarse a la entrega en vez de a la posesión; de sacrificarse en vez de sacrificar. Naturalmente, Irène Némirovsky lo dice mejor que yo: icónicamente, sin moralismos.

El ardor de la sangre es mucho más breve que Suite francesa: con una tipografía muy generosa llega apenas a 140 páginas. Pero está completa, y Suite francesa en cambio no.

¿Completa? Sí, completa. Que no es lo mismo que terminada. El ardor de la sangre es un relato escrito con habilidad y con sentido dramático, pero me parece que le falta todavía alguna capa de redacción: hay algún episodio un tanto perdido, hay rasgos poco perfilados en los personajes, hay informaciones transmitidas al lector de modo algo ortopédico, hay contradicciones. Por ejemplo, al principio Silvio, el narrador, dice que no recuerda cómo era Hélène a los 20 años, cosa que las páginas finales claramente desmienten.

Pienso que algún escritor un poquito experto debería haber revisado y pulido el texto. Las circunstancias lo justifican: Irène Némirovsky escribió la novela en Issy-l’Evéque en 1941, pocos meses antes de su deportación a Auschwitz. Su manuscrito está entero, y una parte, además, está mecanografiada por su marido, Michel Epstein: no sabemos si Epstein interrumpió su transcripción cuando los nazis se llevaron a su mujer o cuando, poco después, vinieron a por él (también él murió en Auschwitz), pero es lógico pensar, a la vista del imperfecto estado del texto, que ella le habría dado otra mano una vez mecanografiado, si hubiera podido.

A la muerte de Schubert, otro músico arregló su sinfonía inacabada para dejarla presentable. Eso habría hecho yo con El ardor de la sangre.

Novela completa pero inacabada, por tanto. Justo lo contrario de ese ardor que su título invoca, destinado a acabarse muy pronto y, salvo que medie un cambio de paradigma, a demostrarse incompleto.

venerdì 1 maggio 2009

Traduciendo a Emily

The Sea said «Come» to the Brook —
The Brook said «Let me grow» —
The Sea said «Then you will be a Sea —
I want a Brook — Come now»!

Muchos poemas de Emily Dickinson me han gustado, varios me he señalado para releer, algunos transcribí en su día en algún papel que luego tiré. Pero sólo uno me he aprendido de memoria: éste, el 1210.

Me familiaricé con él en un momento dramático, cuando el dolor de Carlo y Alessia por Ilario, que con un año y medio se les había muerto, estaba en carne viva. Por eso de las dos estrofas del poema me ha interesado sólo la primera. La segunda es menos intuitiva (The Sea said «Go» to the Sea — / The Sea said «I am he / You cherished» — «Learned Waters — / Wisdom is stale — to Me»).

El poema 1210, como todos —o casi— los de Emily Dickinson, trata de la muerte. “Todos los torrentes van al mar, pero el mar no se llena”, observa Qohelet con su característica reticencia. Es un dicho en el que seguramente Emily se inspiró. Josemaría Escrivá de Balaguer acaba su libro Es Cristo que pasa precisamente con esa cita, pero la pone en el consolador contexto de la misericordia de Dios. “Eres mar de inagotable misericordia: «los ríos van todos al mar y la mar no se llena»”, escribe justo antes del punto final.

El verano pasado leí una traducción de Silvina Ocampo de ese poema de Emily Dickinson: una traducción muy literal que me pareció que le quitaba gran parte de su efecto. En fin, que me he permitido hacer otra, limitada sólo a la primera estrofa.

La mía es ésta:

«Ven», oyó al mar el arroyo.
«He de crecer», respondió.
«Ven ahora», oyó de nuevo:
«Quiero un arroyo, no un mar».

Tampoco mata, de acuerdo. Pero es gratis.

venerdì 24 aprile 2009

Fitzgerald en horas bajas

Hay autores que ven su estrella brillar y apagarse cíclicamente cada pocos años. En 1941, un año después de su muerte, la publicación póstuma de El último magnate convirtió a Scott Fitzgerald en un mito, devolviéndolo a su antigua, breve gloria de los años 20. Tras otro bajón en los años 50 y 60, conocerá en los 70 un nuevo momento estelar en cuyo origen se adivina una conciencia difusa de crisis social, más aún que económica, que encuentra en el decadentismo su espejo mágico de la verdad.

Últimamente, Fitzgerald vuelve a interesar: se editan sus cartas a Zelda, se publican biografías y ensayos, se producen películas... A rebufo de este revival, Navona, una editorial de Barcelona, acaba de publicar los que considera Los mejores cuentos de Fitzgerald. Entre ellos figura, con todo merecimiento, Retorno a Babilonia.

En la vorágine de la edad del jazz, Charlie Wales no sólo ha dilapidado su fortuna y su reputación, sino que ha conducido inconscientemente a su mujer a una muerte absurda que los parientes de ésta nunca podrán perdonarle. Todos sus esfuerzos se vuelcan ahora en la única, desesperada posibilidad de redención que es capaz de imaginar, la de merecer la custodia de su hija, que ha vivido temporalmente en casa de unos tíos.

Retorno a Babilonia, escrito en 1931, refleja crudamente la situación del autor en ese momento, tras unos años en que el exceso había sido la norma.

John Dos Passos recuerda una cena en casa del pintor Gerald Murphy en Antibes: una cena en el jardín con aristócratas franceses. "Scott y Zelda", escribe Dos Passos, "se emborracharon durante los cóctels y en lugar de sentarse a la mesa se pusieron a andar a cuatro patas entre las hortalizas, arrojando de cuando en cuando un tomate a los invitados. Una duquesa que recibió el impacto de uno muy maduro en el escote no lo encontró divertido en absoluto”.

Es sólo una historia entre muchas. “Gerald consiguió finalmente llevárselos", concluye Dos Passos, como diciendo que para ellos la fiesta había terminado.

Así es. En 1930 Zelda es declarada esquizofrénica. El sentimiento de culpa se abate sobre Fitzgerald, así como la incapacidad de costear su atención y la educación de su hija Scottie.

En 1937, la Metro Goldwyn Mayer vendrá finalmente en su ayuda. Fitzgerald deja a su mujer en una clínica psiquiátrica de Carolina del Norte (donde morirá en 1948, en un incendio) y se instala en Hollywood. Sus últimos años están marcados por la relación con la periodista Sheila Graham y por una seria dedicación al trabajo, pero no por el éxito. Sólo uno de sus guiones llegará a las pantallas, muy rehecho por el productor, Joseph Mankiewicz: el de Tres camaradas, con Robert Taylor, película de la que hoy nadie se acuerda.

Muy debilitado por el alcohol —al que en Hollywood, aunque menos, sigue siendo adicto— y por un proceso tuberculoso, Fitzgerald muere de un paro cardíaco en diciembre de 1940, con sólo 44 años.

venerdì 17 aprile 2009

Fitzgerald y Gatsby

Para muchos es la cima de la literatura americana contemporánea. ¡Si Fitzgerald sólo hubiera escrito El gran Gatsby! Pero escribió más cosas, y algunas de ellas explican la severidad con que lo ha tratado cierta crítica.

El gran Gatsby (1925) deja muy atrás, en concreto, a las otras dos novelas de Fitzgerald de los años veinte, A este lado del paraíso (1920) y Hermosos y malditos (1922). Las tres anuncian al mundo, bajo la superficie de la historia de encanto y desencanto de sus personajes, la "edad del jazz", la nueva vida de una América feliz que ha salido de la primera guerra mundial sin grandes traumas y que de pronto se descubre joven y bella. Pero Jay Gatsby, el pobre que se ha hecho rico por amor, es un héroe muy superior a los de las dos novelas precedentes, Amory Blaine y Anthony Patch, ricos hijos de ricos.

Además, la historia de Gatsby está narrada, astutamente, desde el punto de vista de un personaje secundario, Nick Carraway. Amigo de Gatsby y primo lejano del amor imposible de éste, Daisy Buchanan, Nick conocerá por dentro el mundo de los ricos para finalmente autoexcluirse de él. Mediada por la visión de un personaje que, aun siendo un outsider, participa intensamente en los hechos, la tragedia de Gatsby llega al lector con un singular poder de sugestión.

Es célebre el final de la novela, cuatro párrafos elegíacos que en algunos ambientes es de buen tono saberse de memoria.

Naturalmente, Gatsby no es una abstracción. Algo de él había en su propio autor: también en el caso de Fitzgerald, por ejemplo, había sido una mujer, Zelda Sayre, el estímulo para dar el salto al olimpo de los ricos.

Con los años, sin embargo, el desenlace de la historia de Fitzgerald se irá alejando de la de su héroe. Embriagado de fama, irresponsable, excéntrico, a partir de cierto momento Fitzgerald vivirá sólo para alimentar su propia leyenda, al contrario del fastuoso pero esquivo Gatsby. Pero su leyenda entra en un callejón sin salida en 1929, con el fin de la edad del jazz, cuando su mundanidad deja de tener sentido y lectores y críticos le abandonan por otros escritores de la “generación perdida” más en consonancia con los nuevos tiempos: el inconformista Dos Passos, el reticente Hemingway...

Sólo después de su muerte (1940), gracias al editor y amigo Edmund Wilson, se redescubriría su contradictoria pero genuina grandeza.

venerdì 10 aprile 2009

Ed era morto

Tra i poeti metafisici inglesi, l’unico forse a tenere testa al capostipite John Donne è George Herbert (1593-1633), un artista della parola che ha fatto colpo su personalità eccezionali, da Coleridge a Simone Weil.

Oggi, venerdì santo, forse è il caso di proporre la lettura di un suo poema di intensa sensibilità religiosa, Redenzione, nella delicata traduzione di Cristina Campo.


Redenzione

Lungamente fittavolo di un potente Signore,
Poiché non prosperavo, presi cuore
A fargli istanza, che mi concedesse,
Cancellato l’antico, un canone minore.
In Cielo, al suo maniero, lo cercai,
E là mi dissero che era appena partito
Per un suo fondo, comprato ad alto prezzo
Da tempo in Terra, a prenderne possesso.
Tornai indietro, e d’altissima stirpe
Sapendolo, cercai negli alti luoghi,
Nelle città, teatri, parchi e corti:
Alfine udii sgangherata baldoria
Di ladri e d’assassini. Là dentro lo scopersi
Che:
La tua istanza è accolta, mi disse; ed era morto.

venerdì 3 aprile 2009

Quelle lettere mai spedite

“Non voglio essere, come il personaggio di Catherine Dunne, la metà di niente”, ha detto qualche anno fa la nostra attuale first lady (allora non lo era), in una lettera aperta, a proposito di certe galanterie rivolte dal marito ad altre dame.

Non ho letto La metà di niente, che per quanto mi dicono affronta, in effetti, l’eterno motivo della donna tradita dall’uomo, ma non credo che sia un romanzo da melodramma lezioso, come invece il paragone della signora Berlusconi potrebbe far pensare. Di Catherine Dunne ho letto soltanto Il viaggio verso casa (Guanda, 2000).

Anche in questo romanzo c’è una crisi coniugale, ma resta molto in secondo piano. Beth, che dopo molti anni torna a Dublino —da Londra, dove abita— per congedare la madre morente (in coma terminale), si è separata dal marito: in fondo non c’è niente di speciale, soltanto che lui dedica la domenica a lavare la macchina, e lei questo non lo manda giù.

La vita spesso è così: cose triviali che vengono percepite come macigni insuperabili nel nostro cammino. Fa bene Catherine Dunne a portare i problemi tra Beth e il marito ai margini, lontano dall’epicentro drammatico del romanzo: è un modo di dire che spesso ciò che ci perde è il non capire l’importanza reale delle cose che sperimentiamo.

Certo, la riconciliazione finale, anche se funzionale al senso della storia (Beth è diventata un’altra persona), mi sembra troppo schematica. Così come la rottura tra James, il fratello di Beth, e la moglie. Diciamo tutto, ho il sospetto che questa simmetria un po’ ortopedica vada a beneficio esclusivo di qualcosa di extraletterario: più precisamente, di quella causa divorzista di cui la Dunne è stata, in Irlanda, militante attiva.

Ma, come dicevo, il tema portante del romanzo è un altro: il viaggio di Beth a casa diventa il ritorno a un rapporto mai prima sistemato adeguatamente, a un rapporto mai armonioso con la madre. Catherine Dunne mixa in questo punto le voci di entrambe, intrecciando i ricordi di Beth a certe lettere che la madre le ha scritto —ma non le ha inviato— negli ultimi anni. C’è non poco di simile a Va dove ti porta il cuore, è vero, ma secondo me il risultato è superiore.

Insomma, sicuramente Catherine Dunne non si meritava quel venir trascinata da Veronica Lario nel mercato del gossip.

venerdì 27 marzo 2009

Papini postumo

La seconda nascita fu scritto da Papini nel 1923, ma venne pubblicato —da Vallecchi— soltanto nel 1958, dopo la morte dell’autore. Non so se è stato mai ristampato. Spero di sì. Io comunque l’ho letto in quella edizione del 58.

Giovanni Papini (1881-1956), che nella foto vediamo con una giovanissima Oriana Fallaci, aveva pubblicato nel 1912 una prima autobiografia, Un uomo finito. Molte cose erano cambiate nel decennio successivo: molte cose che giustificavano un nuovo volume autobiografico e un titolo come La seconda nascita. Poi forse Papini decise di non darlo alle stampe per prudenza (forse), cioè per evitare che ancora altri cambiamenti radicali nella propria vita potessero smentire di nuovo ciò che di se stesso aveva scritto. Sarà per quello o sarà per un altro motivo, ma il fatto sta che il libro è stato pubblicato solo dopo la sua morte e, di conseguenza, il termine “seconda nascita” del titolo ha assunto inevitabilmente un senso escatologico, si presenta cioè come sinonimo di “morte”.

E invece La seconda nascita è semplicemente un libro di conversione. Raccontare bene la propria conversione religiosa è cosa difficile, anche perché i parametri stabiliti dal creatore del genere, sant’Agostino, sono inarrivabili. Nel secolo XX le prove mediocri sono tante, ma grazie a Dio non mancano i tentativi fortunati, come quello di Thomas Merton. Ebbene, secondo me anche questo libro di Papini merita un luogo di riguardo tra le autobiografie moderne di convertiti.

In altri libri, Papini tende al parossismo: è appunto escatologico, apocalittico (“urlatore” dello spirito, è stato soprannominato qualche volta). La seconda nascita invece è proprio l’opposto: qua tutto è pacatezza, serenità, morbidezza. La campagna toscana, la saggezza popolare, l’ingenuità dei bambini: ecco gli elementi del pacifico, sommesso fondale di questa bella testimonianza spirituale che Papini ci ha regalato post mortem.

venerdì 20 marzo 2009

La vocación y el destino de Eszter

Desde su salto póstumo al estrellato, en 1998, con El último encuentro, el húngaro Sándor Márai (1900-1989) se ha convertido en una mina para la editorial italiana Adelphi, su patrocinadora inicial. Y también, secundariamente, para las editoriales que lo han publicado en otros países: en España, por ejemplo, para Salamandra y Quinteto.

A mí, hasta ahora, no es El último encuentro la novela de Márai que más me ha gustado, sino La herencia de Eszter (Quinteto, 2003).

Eszter tiene 45 años. Cuando tenía poco más de 20, Lajos le había prometido amor eterno y exclusivo. Al cabo de dos años, sin embargo, Lajos se había casado con su hermana Vilma.

Han pasado veinte años y es ya muy poco lo que Lajos puede arrebatarle: le ha desposeído de la vocación al amor, como comprueban sus sucesivos pretendientes; le ha desposeído de Vilma, que entre tanto ha muerto; le ha desposeído de muchas pequeñas cosas que componían un todo con sentido. Pero Lajos anuncia que vuelve, y sin duda no vuelve desinteresadamente.

La herencia de Eszter está envuelta en una atmósfera de fatalidad en la que toda idea de resistencia a la desventura se desvanece. Eszter está absolutamente segura de que Lajos va a salirse con la suya, va a obtener de ella su patrimonio, modesto pero no insignificante.

La herencia que Eszter finalmente cede a Lajos es figura de la remoción de un proyecto de vida al que estaba llamada pero que no ha podido acometer. Lajos, personaje entre cómico y demoníaco, es el paradigma de ese hombre de mundo bajo cuyo peso yacen aplastados, hoy como siempre, tantos destinos individuales que un día quizá fueron soñados.

Para el hombre despojado de su vocación, víctima del gregarismo o de la lógica de poder, el destino es triste y opaco, como la habitación oscura de la última escena —un epílogo, más bien— de La herencia de Eszter. Pienso que es ésta la clave de lectura decisiva de la parábola de Márai.

venerdì 13 marzo 2009

La vocación y el destino de Isabel Archer

Un amigo me pidió un consejo de lectura: “Jane Eyre me ha encantado, dime algo que sea parecido”, me dijo. Le sugerí Retrato de una dama, otra historia de desventura femenina, aunque realmente la heroína de Henry James, la convencional y calculadora Isabel Archer, es todo lo contrario de la romántica Jane Eyre.

El viernes pasado, a propósito de Jane Eyre, hablé, desde esta estación de libroaficionado, de vocación y destino, y casualmente esta semana el suplemento dominical del Sole 24 Ore ha publicado un artículo de la filósofa Roberta De Monticelli que toca el tema de refilón, lo que me da un pretexto para seguir con él, ahora en relación con Isabel Archer.

Roberta De Monticelli está desde hace tiempo en contraste con la Iglesia: dice no reconocerse ya como filósofa católica. En ese artículo, a propósito del teólogo de moda en Italia, Vito Mancuso, invita a los católicos a anteponer al Magisterio la libertad de conciencia, como expresión de la primacía de la dimensión personal sobre la “subpersonal”.

Con ese “crecimiento de la vida personal”, sostiene, crece “la parte de naturaleza humana que cada uno personifica”, y esto me convence sólo a medias, porque también puede haber un “crecimiento” que aleje de la naturaleza humana (pensemos en el Übermensch nazi). Pero hay más: “crece la parte de vocación y decrece la de destino”, afirma la autora. Y aquí mi perplejidad es mucho mayor.

En realidad, vocación es llamada: llamada que procede de fuera del hombre, porque nadie se da a sí mismo la llamada, la vocación. Por tanto, un crecimiento de vida personal será un crecimiento de “la parte de vocación” si responde a la instancia exterior en la que ésta tiene origen. Curiosamente, en el artículo de Roberta De Monticelli no aparece la palabra Dios: no hubiera estado de más, tratándose de un artículo dirigido a creyentes.

Y volvamos ahora a Retrato de una dama.

Isabel Archer se da cuenta tarde, cuando ya no hay remedio, de su gran error: el hombre con el que se ha casado no le quiere, y el que antes absurdamente ha rechazado está ahora a miles de kilómetros. Al final, sin embargo, reencuentra a éste en Inglaterra. En la adaptación cinematográfica de Jane Campion, Isabel Archer (Nicole Kidman), tras un rápido lance amoroso, se vuelve a la casa en la que se aloja y, al llegar a la puerta, se da la vuelta, momento de repentina afirmación personal en que la imagen se congela y la película termina. Es un final moderno pero ambiguo.

En la novela, en cambio, ella deja al pretendiente con buenas esperanzas de poder volver a verla, pero cuando él va a buscarla, al día siguiente, le dicen que se ha ido para reunirse con su marido.

Brillante y ambiciosa pero no cínica, Isabel Archer ha entendido que la vocación personal sólo puede tener sentido en el marco que la justifica: en su caso, su familia.

venerdì 6 marzo 2009

La vocación y el destino de Jane Eyre

Hace años, después de leer Jane Eyre, me planteé un dilema que no sé si es inteligente o estúpido, pero del que no me importa dejar aquí constancia: ¿Jane Eyre está llamada o está destinada a casarse con Rochester? Es decir, ¿el matrimonio con Rochester es su vocación o simplemente su destino?

Está llamada, decidí: a pesar de todo lo que Rochester le ha hecho sufrir, a pesar de que tantas cosas la empujan en otra dirección, siente una llamada a casarse con él y libremente la sigue. Es un caso de vocación, más que de destino.

En el lenguaje común, vocación y destino suelen ser términos intercambiables. Sin embargo, significan cosas distintas.

La diferencia fundamental —al menos, así me lo parece— es la libertad, tan decisiva en la aceptación o el rechazo de la vocación (religiosa, profesional o del tipo que sea) como impotente ante el destino. Ahora hablamos de destino como si nada, pero en su elaboración clásica (en Homero, en Esquilo) el destino, instancia superior a los mismos dioses (no digamos a los hombres), no era una tontería.

En este sentido, el destino siempre se cumple: la vocación, sólo algunas veces. Pero el destino es una fuerza ciega y desconocida, y la vocación, en cambio, se puede descubrir —y asumir— casi en su origen. El término a quo (de dónde) es lo que más peso tiene en la vocación; el término ad quem (adónde), en el destino.

Dicho lo cual, para volver al lugar literario del que habíamos partido, termino confesando que Jane Eyre es un personaje que me enamora.

De acuerdo, la novela tiene mérito en sí misma, y reconozco que su ritmo febril (con esos “oh reader!” que Charlotte Brönte disemina a lo largo del texto para comunicar al lector los sentimientos de Jane Eyre) me sedujo poderosamente. Pero sobre todo me atrae la figura de la protagonista. En buena parte por eso, porque llega a su destino aceptando y cumpliendo una vocación: una vocación bastante tremenda.

venerdì 27 febbraio 2009

Las víctimas del tiempo

Un amigo sabio me decía hace poco que ya no hay en el mundo grandes filósofos: Heidegger o Gadamer, por ejemplo, ya en vida eran reconocidos como figuras eximias, me explicaba; hoy, en cambio, no se ve a nadie, entre los vivos, de ese nivel.

Algo parecido dice Milan Kundera a propósito del arte: por una misma carretera ve marchar a artistas de distintas épocas, desde Masaccio y Van Eyck hasta Matisse y Picasso. Pero después de éstos la carretera de pronto desaparece, ante el asombro de todos.

Una novela tan breve y sin pretensiones como Una letra femenina azul pálida (Anagrama, 1998), de Franz Werfel, obliga a extender esas consideraciones al ámbito de la literatura.

Objetivamente, entre la primera y la segunda mitad del siglo XX hay una diferencia abismal. En la segunda yo al menos no veo a nadie comparable a Kafka, a Eliot, a Thomas Mann... Y aunque Franz Werfel (1890-1945) no sea un genio de ese calibre, su escritura revela de modo inquietante cuánto hemos perdido, literariamente, en el curso de los decenios. ¿Por qué hoy nadie escribe con esa elegancia, con esa transparencia, con esa profundidad de visión?

Werfel, checo de cultura alemana y, como sus amigos Kafka y Max Brod, judío, fue el tercer marido de la inefable Alma Mahler, coleccionista de hombres ilustres (sus dos maridos anteriores habían sido Mahler y Walter Gropius, y también había tenido una relación con Kokoschka). Con ella huyó azarosamente de la Europa nazi en 1940 y se estableció en Estados Unidos. Y allí, en Estados Unidos, donde ser judío ya no era un peligro, Alma Mahler lo convirtió, no sé muy bien cómo, al catolicismo.

La nostalgia de la felix Austria anterior a 1914, común a tantos otros autores mitteleuropeos (Zweig, Roth, Hofmannstahl), encuentra en Una letra femenina azul pálida, publicada en 1941, una de sus parábolas más sugestivas, al menos para mí.

“La inocencia y la belleza tienen un solo enemigo, el tiempo”, escribió Yeats: verdad tan válida para la Austria idealizada de Francisco José, vista desde las turbulencias de los años treinta, como para los sentimientos juveniles del protagonista de esta excelente novela, vistos desde su prosaica madurez.