domenica 29 gennaio 2012

Eichmann e altri come noi

La banalità del male, di Hannah Arendt (Feltrinelli, 2009), è un libro imprescindibile, ma per me è stato anche un libro sorprendente.

Mi ha sorpreso, anzitutto, la capacità narrativa della Arendt: in questo aspetto, trovo che non ha niente da invidiare a Kapuscinski o a Montanelli. Senz’altro sarà stata aiutata dalla redazione del New Yorker, la rivista a cui nel 1961 ha inviato, da Gerusalemme, i suoi servizi sul processo a Eichmann poi confluiti nel libro; ma al tempo stesso il risultato è molto personale, molto “d’autore”.

Mi ha sorpreso pure, meno positivamente, la sua approvazione della condanna a morte per l’imputato. Comunque, grazie a Dio non sono mancati ebrei prominenti, come Martin Buber, che in quel momento si sono pronunciati contro l’esecuzione di Eichmann.

Una riflessione che torna più volte nel corso del libro e che dà ragione del titolo: “Il guaio del caso Eichmann era che di uomini come lui ce n'erano tanti e che questi tanti non erano né perversi né sadici, bensì erano, e sono tuttora, terribilmente normali” (p. 282). Infatti, Caino è ognuno di noi. Il male non riguarda soltanto un manipolo di tedeschi estremisti che nel secolo scorso ha combinato cose tremende, come alcuni sembrano intenti a farci credere. In realtà, il male ha tante forme e tanti volti: è nel rapporto con gli uomini, con la natura e con Dio; è in me e in te, in quella parte mediocre dell’anima di cui parlava Simone Weil e che va mortificata.

A questo proposito, ecco un’altra bella citazione di Hannah Arendt sul peso dell’azione morale in se stessa considerata: “Un processo assomiglia a un dramma in quanto che dal principio alla fine si occupa del protagonista, non della vittima [...]. Al centro di un processo ci può essere soltanto colui che ha compiuto una determinata azione (il quale sotto questo rispetto è per così dire l’«eroe») e se egli deve soffrire, deve soffrire per ciò che ha fatto materialmente, non per le sofferenze che ha provocato agli altri” (p. 17). Valga per Eichmann a Gerusalemme, e valga anche per noi nella prospettiva del giudizio finale.

Comunque, vogliamo non spostarci tanto in avanti? Lasciamo stare allora il giudizio finale e guardiamo il presente rileggendo, sempre nella Banalità, questa profetica, terribile osservazione: “È noto che Hitler cominciò la sua operazione di sterminio col concedere una «morte pietosa» agli «incurabili», ed è noto che egli intendeva estendere il programma di eutanasia ai tedeschi «geneticamente imperfetti» (cardiopatici e tubercolotici). Ma a parte ciò, è evidente che questo tipo di sterminio può essere diretto contro qualsiasi gruppo, e che il principio con cui viene effettuata la selezione dipende esclusivamente dalle circostanze. Non è affatto escluso che nell'economia automatizzata di un futuro non troppo lontano gli uomini siano tentati di sterminare tutti coloro il cui quoziente d'intelligenza sia al di sotto di un certo livello” (p. 291).

Dio ce ne scampi! Dalla condanna nel giudizio finale e dalla “pietà” di certi filantropi banalmente normali.

domenica 15 gennaio 2012

Fermín en el Congo

A propósito de la censura británica a Tintín en el Congo, Fermín de Aldoz me manda una poesía.

Sé que hizo un viaje a África hace algún tiempo. Me lo imagino rodeado de negros, danzando con ellos y acompañando con un tam-tam a un coro de mujeres que cantan:

¡Harambé!, ¡todos a una!,
todos juntos, ¡harambé!
¡Harambé!, todos a una,
porque mi negro quiere nacer.

De la selva a la sabana,
de Kisangani a Lomé,
¡harambé!, grito de guerra,
porque mi negro quiere nacer.

El blanco lleva un sombrero
y zapatos en los pies,
y tiembla como una palma,
porque mi negro quiere nacer.

El blanco ha hablado en su tribu,
¡hatari! ha dicho en inglés.
¡Hatari!, grito de miedo,
porque mi negro quiere nacer.

Ha dicho que somos pobres
y que un muerto no lo es,
y que me he de comer a mi negro,
porque mi negro quiere nacer.

Al norte hay una muralla,
al sur un grito: ¡harambé!
¡Harambé!, grito de parto,
porque mi negro quiere nacer.


Apostilla: Racismo por racismo, me quedo con Hergé. El alarmismo del Economist sobre la “bomba demográfica africana” es mucho más insultante que los inocentes dibujos de Tintín en el Congo.