sabato 30 luglio 2011

Fabrice Hadjadj: il solletico di Dio

Che cos’è la verità (Lindau, 2011) è la trascrizione di una disputatio che ha avuto luogo nel duomo di Rouen l’estate scorsa, a giugno, tra Fabrice Hadjadj e Fabrice Midal.

La disputatio o controversia è una sorta di gara intellettuale propria del medioevo: due aspiranti professori dovevano confrontarsi su un tema centrale, esponendo prima liberamente i loro punti di vista e dibattendo poi, in una seconda fase, le idee emerse. Siccome la disputatio era pubblica, diventava pure un mezzo pedagogico.

In questo caso la disputatio, che ha visto su fronti opposti un cattolico e un buddista, si è tenuta in una cattedrale ed è stata organizzata da un’associazione di teologi. Senza conoscere bene l’iniziativa (a quanto pare, quello di Rouen è un appuntamento fisso che si ripete tutti gli anni, con temi diversi di volta in volta), dico subito che mi sembra molto interessante. Spesso mi capita di vedere autori cristiani che costruiscono tutto il loro discorso sulla base di idee o citazioni di altri autori cristiani, a circuito chiuso. E invece occorrerebbe, secondo me, confrontarsi con gli altri, sentirli, dialogare, capire che cose hanno da dire, imparare da loro; e tentare poi di riformulare il messaggio cristiano con parole che per loro abbiano un significato. Il papa non mi sembra per niente contrario a un atteggiamento di questo tipo: si veda il dialogo con Habermas, oppure il recente “cortile dei gentili”.

Fabrice Hadjadj e Fabrice Midal, i due contendenti della disputatio su Che cos’è la verità, dimostrano un livello intellettuale e una capacità dialettica alti. Entrambi sono filosofi, giovani (appena quarantenni) e di tradizione ebraica. Il primo si è convertito al cattolicesimo nel 1998. Il secondo è buddista.

Il libro, dopo un’introduzione erudita del vicario generale di Rouen, ha tre parti: intervento di Fabrice Midal (pp. 15-32), intervento di Fabrice Hadjadj (pp. 33-51) e dibattito (pp. 53-85). Questa parte finale aiuta a identificare le differenze di pensiero tra i due autori, non facili da discernere nei discorsi precedenti, meramente espositivi. Midal propende a un misticismo in cui l’io si perde nel tutto. Hadjadj enfatizza il concetto di relazione, su cui l’io si regge. Naturalmente, sono in discussione molti altri temi, tutti ricchi di sfumature. “Che cos’è la verità”, la domanda di Pilato da cui parte la disputatio, porta molto lontano.

Ho trovato fredda ed ermetica, anche se non carente di lampi di genio, la prima parte del libro, il discorso di Fabrice Midal. Mi ha entusiasmato invece l’intervento dell’altro Fabrice, che ho trovato scintillante: cioè divertente, stimolante e profondo. Hadjadj tira in ballo, per esempio, la propria suocera e i piercing dei suoi allievi (i ragazzi di un liceo di Tolone dove insegna filosofia), ma lo fa per portare poi il discorso sulla suggestiva idea della comunione dei volti e sul mistero del Cristo crocifisso. Parlare di Dio è un’arte, e di quest’arte il testo di Fabrice Hadjadj mi sembra un capolavoro.



venerdì 15 luglio 2011

Jean Daniélou: l'ombra di Dio

Dio e noi è un libro del teologo e gesuita francese Jean Daniélou (1905-1974). Il titolo può sembrare troppo ambizioso, ma secondo me doveva per forza essere ambizioso, audace, provocatorio.

Certamente, audace era Daniélou quando lo ha pubblicato, nel 1956: poco prima aveva dovuto ritirare dalla circolazione un altro suo libro, ritenuto dai guardiani dell’ortodossia troppo problematico. Poi però sarà una delle grandi figure del Concilio Vaticano II, e negli ultimi anni della sua vita sarà ritenuto dalla intellighenzia teologica addirittura troppo adagiato sulle posizioni del magistero, soprattutto quando Paolo VI, che molto lo stimava, lo farà cardinale, nel 1969.

Di Dio e noi, che ho letto in una edizione molto vecchia (ma mi sembra che Rizzoli ne abbia fatto una nuova nel 2009), mi ha convinto particolarmente il primo capitolo, “Il Dio delle religioni”. In questo capitolo Daniélou espone la sua teoria dell’alleanza cosmica, una sorta di contratto originario di Dio con l’uomo che precederebbe le posteriori, particolari alleanze con i patriarchi dell’Antico Testamento e che spiegherebbe le assonanze che un attento osservatore riscontra in tradizioni religiose molto lontane nel tempo e nello spazio. Questa idea è stata poi introdotta dallo stesso Daniélou in un documento importante del Vaticano II, la costituzione Dei Verbum, che afferma che Dio si rivela factis et verbis, cioè non soltanto con parole, con i testi sacri, ma anche con fatti, a cominciare dalla Creazione.

Ma torniamo al libro. In Dio e noi, Daniélou parla in primo luogo, ovviamente, di Dio; e lo fa percorrendo, in compagnia degli amati padri della Chiesa (soprattutto sant’Ireneo e san Gregorio di Nissa), sei tappe: “Il Dio delle religioni”, “Il Dio dei filosofi”, “Il Dio della fede”, “Il Dio di Gesù Cristo”, “Il Dio della Chiesa” e “Il Dio dei mistici”. In questo modo il secondo polo del titolo, cioè il “noi”, diventa una spalla del primo: una spalla che cambia a seconda della scena. Non male, quando l’attore principale è Dio.

Facendo a ritroso il cammino del libro, finisce che nel casting ci siamo quasi tutti: mistici, cattolici, cristiani, credenti, teisti, animisti… Restano fuori gli atei, certo.

È vero che sono loro a voler starsene fuori, ma io li avrei fatto comunque oggetto di un capitolo: “Il Dio degli atei”. Perché anche se gli atei non lo riconoscono come loro creatore, lui, Dio, sì li riconosce: e non soltanto come sue creature, ma addirittura come figli.