venerdì 25 gennaio 2008

A proposito di Kapuscinski

L’altro ieri ricorreva il primo anniversario della morte di Ryszard Kapuscinski, il celebre reporter polacco. Di lui ho appena finito In viaggio con Erodoto (Feltrinelli, 2005), libro originale in cui il resoconto di alcune sue avventure in paesi esotici scorre in parallelo con le peripezie riportate nel suo livre de chevet, le Storie di Erodoto.

“A un certo punto, probabilmente alla fine della sua vita, decide di scrivere un libro: sa di avere raccolto nella sua memoria una quantità enorme di storie e di notizie e che, se non le fissa per iscritto, finiranno per svanire. È l’eterna lotta dell’uomo contro il tempo, contro la labilità della memoria, contro la sua tendenza a offuscarsi e svanire”. Kapuscinski in questo passo parla di Erodoto, certo, ma anche di se stesso: infatti, In viaggio con Erodoto è stato il suo ultimo libro pubblicato in vita, e tradisce inequivocabilmente il bisogno di fare i conti con la memoria prima della morte.

“Le tue grandi esclusive di oggi serviranno per incartare il pesce di domani”, diceva realisticamente Pulitzer ai suoi giornalisti. E Kapuscinski, anche se con i suoi libri è riuscito a farsi un nome come letterato, sa di essere, tutto sommato, un reporter. Fino a che punto resterà come fonte, fino a che punto è storia ciò che ho scritto?, si sarà domandato più di una volta. Diciamo tutto: salvando le distanze io, storico di formazione ma giornalista di mestiere, non posso meno di riconoscermi altrettanto interessato alla questione.

La posizione di Kapuscinski è chiaramente ottimista: secondo lui, Erodoto di Alicarnasso, il viaggiatore curioso, il puntuale cronista vissuto nel secolo V a.C., sarebbe stato non soltanto il padre della storiografia, ma anche del giornalismo.

L’idea mi seduce, ma al contempo mi inquieta. Anche se Kapuscinski non intende stabilire qualcosa del genere, in un certo senso la sua intronizzazione di Erodoto come padre del giornalismo fa scivolare la storia dagli antichi annali agli odierni giornali. È pensando ai primi che Cicerone ha definito la storia “magistra vitae”, maestra della vita. Dai giornali, però, chi si aspetterebbe mai un magistero di tale portata?

Chiaramente una cultura giornalistica non basta. Al limite, un giornale —la stessa parola lo dice— può insegnare a vivere alla giornata: e vivere alla giornata, in preda a quella passione del momento che soffoca la ricerca della verità, è sicuramente smarrire il senso della vita.

venerdì 18 gennaio 2008

Tragedia, squallore, immolazione

“Non rifinite mai troppo; così facendo raffreddate la lava di un sangue ribollente, ne fate una pietra”, ha scritto Gauguin. Di Suite francese (Adelphi, 2005), il romanzo incompiuto che ha riportato alla ribalta Irène Némirovsky sessanta anni dopo la morte, si può dire veramente che è sangue alla lettera, la sua stesura essendo stata interrotta nel luglio 1942 dalla deportazione dell’autrice ad Auschwitz, dove è stata uccisa dopo pochi giorni.

A parte questo dato, nel romanzo fa impressione il contrasto tra la portata tragica del destino della Francia dopo l’invasione tedesca, nel 1940, e la meschinità della popolazione in fuga da Parigi.

I miei nonni hanno subito una esperienza simile durante la guerra di Spagna. Abitavano a Barbastro, una cittadina non lontana dai Pirenei. Nella primavera del 1938, quando Franco stava per prendere la città, sono partiti verso la Francia: lo scenario di strade piene di gente, chi a piedi, chi a dorso di mulo, chi di cavallo, era, per quanto poi mi ha raccontato mia madre (che lo sa per sentito dire: lei aveva due anni), molto simile a quello descritto dalla Némirovsky. Quella fuga è diventata particolarmente sofferta perché nella regione era rimasta isolata una divisione repubblicana che intendeva continuare con le ostilità e che le truppe di Franco hanno bombardato pesantemente (dagli appassionati di gesta militari —non è il mio caso—, l’episodio, una sorta di Termopili della mitologia repubblicana, è conosciuto come “la bolsa de Bielsa”). Mia nonna, credendo di abbandonare per sempre la Spagna, si lamentava di aver lasciato a Barbastro un armadio a specchio a cui era molto affezionata: non il massimo, insomma, come consapevolezza del momento storico... Poi però nella fuga hanno perso tutto, e finalmente dalla Francia hanno deciso di rientrare a Barbastro. La loro casa aveva subito molti danni, ma vi hanno ritrovato qualcosa che era rimasto incolume: proprio l’armadio a specchio.

Durante la fuga da Parigi, in Suite francese, muore Philippe, un sacerdote: uno dei pochi personaggi veri, a tre dimensioni, in questo romanzo con tante figure incompiute, soltanto abbozzate. Muore in modo violento, per mano dei ragazzi di un riformatorio che sta portando in salvo. È il loro capro espiatorio: la sua uccisione scongiura le loro inibizioni, li sblocca. René Girard, teorico del rapporto tra sacrificio e violenza, avrebbe qualcosa da dire.

Questa settimana, Roma ha conosciuto un altro capro espiatorio: come Philippe per i suoi ragazzi, come Irène Némirovsky e in genere “l’ebreo” per i nazisti, Benedetto XVI è stato il bersaglio di un piccolo gruppo di professori e studenti della Sapienza che lo hanno messo alla gogna e di fatto ieri gli hanno impedito di partecipare all’inaugurazione dell’anno accademico, a cui era stato invitato. La protesta silenziosa degli studenti solidali con il Papa, simbolicamente imbavagliati durante l’atto di inaugurazione, mi è sembrata pertinente. In realtà la parte mediocre, squallida, dell’Italia è esigua. Peccato che la parte sana, vera, faccia tanta fatica a riciclarla... Infatti, emergenza rifiuti non c’è soltanto in Campania.

venerdì 11 gennaio 2008

Marco Lodoli: l'unica soluzione è non mollare

Marco Lodoli, poeta e insegnante —a Roma— in una scuola di periferia, quindi due volte poeta, scrive abitualmente su Repubblica. Questo pezzo però l’ho trovato, poche settimane fa, su Avvenire. Mi sembra un intervento prezioso su un argomento importantissimo, scritto con la passione dell’addetto e la lucidità del poeta.

Ripartiamo dalla scuola e dall’amore per il vero sapere

La scuola è un mondo privo di malizie, che non sa in alcun modo nascondere le sue difficoltà: i giovani sono giovani, dunque sinceri come sempre, e le loro difficoltà esistenziali sono qui davanti agli occhi di tutti; i professori sono professori, dunque persone abituate a considerare la cultura il massimo dei beni, e il loro spaesamento di fronte alla nuova scala di valori della nostra società è altrettanto palese. Questo non è certo un momento facile, la scuola in fondo è l’avanguardia del Paese, il suo presente proteso verso il suo imminente futuro, e soffre per una doppia pressione: da un lato scricchiola sotto la tonnellata di nulla infetto, di vanità e narcisismo, di consumismo e faciloneria che grava sulla sua struttura antica, sulle convinzioni di chi ancora è convinto che la vita è dura e va affrontata da subito con impegno, concentrazione, sacrificio. Dall’altro patisce la richiesta di efficienza assoluta, di risultati immediati e misurabili: il modello anglosassone, fatto di test e percentuali, programmazioni rigide e verifiche inoppugnabili, quel modello che punta a creare in fretta una professionalità da spendere subito sul mercato del lavoro sta prendendo inesorabilmente piede e non tutti gli insegnanti sono disposti ad accoglierlo.

Da un lato lo sbraco sottoculturale che investe tanti ragazzi, alla mercé delle sirene televisive, di una finta spensieratezza, di desideri pompati a oltranza; dall’altro un rigore assoluto che vorrebbe produrre rotelle da inserire in fretta negli ingranaggi del sistema produttivo. E così i professori sbandano e si deprimono perché non sanno più qual è il loro posto e il loro ruolo in un mondo che esalta solo il successo e il denaro, le facce rifatte dei vip e quelle gelide dei manager. L’unica soluzione è continuare ad avere fiducia nella letteratura, nella filosofia, nella matematica, nella scienza, entrare in classe e continuare a leggere i poeti e a spiegare i numeri alla lavagna. Continuare ad ascoltare i ragazzi, come sempre, più di sempre, perché oggi i ragazzi si sentono frastornati dal luna park che ruota attorno a loro e spaventati da un mondo che là fuori li aspetta solo per farli sentire più precari che mai, per succhiare il loro sangue. L’isola dei famosi e lo spettro dell’esclusione sociale, il benessere promesso e la miseria minacciata, il nuovo telefonino e nessuno che ti chiama per un lavoro sicuro.

A volte ci si sente inadatti, piccoli, brutti e inutili. A volte però ci si sente quasi degli eroi, soli a difendere il senso della dignità umana e del sapere in un mondo che pare atrocemente disinteressato. Marco Lodoli.

venerdì 4 gennaio 2008

El silencioso Chéjov

El minus dicere de Natalia Ginzburg (1916-1991), su discurso escueto y contenido, elusivamente alusivo, da un óptimo resultado en Antón Chéjov (Acantilado, 2006), interesante incursión de la novelista italiana en el género biográfico.

“Los silencios de Chéjov”, podría llamarse este breve libro, en el que lo tácito pesa casi más que lo declarado.

De esos silencios supo algo Lika Mizinova, una amiga de su hermana María que por algún tiempo suscitó su interés. Aunque se trataba de un interés correspondido, Chéjov evitaba comprometerse con ella. En la primavera de 1893, sin embargo, la invitó a su casa en Mélijovo, junto con otros amigos como el escritor Potapenko. “Ella acudió llena de esperanza; estaba locamente enamorada de él y pensaba que ahora, por fin, le diría que la amaba y le propondría matrimonio. Sin embargo, nada ocurrió. Cuando estaba con ella siguió mostrándose burlón, irónico, tierno y paternal. Por momentos parecía desearla, y poco después la rechazaba”.

Lika es Nina, la actriz desdichada de La gaviota: es la gaviota a la que matan de un tiro sin ningún motivo, por capricho. Es mi personaje preferido entre todos los de Chéjov, con la Sonia de Tío Vania.

“En Mélijovo, Lika empezó a coquetear con Potapenko para darle celos, pero el escritor se mantuvo impasible. Cuando Lika le cantaba y Potapenko la acompañaba al piano, Chéjov los contemplaba con una gran sonrisa. Para fin de año volvió a invitarlos a ambos. Más tarde, Lika fue la amante de Potapenko, que estaba casado. Se fueron juntos al extranjero, a Suiza y luego a París; Lika quedó embarazada y Potapenko la abandonó. María y Chéjov se mostraron indignados, considerando que Potapenko era un hombre vil y despreciable; pese a ello, volvieron a aceptarlo en casa. Chéjov no le dijo nada y todo volvió a ser como antes. Lika regresó a Rusia desde París; había perdido el hijo que esperaba. Se había marchitado. Ya no quedaba en ella casi nada de su antigua y radiante juventud. Es probable que Chéjov se diera cuenta de que había sido cruel con Lika, de que había jugado con ella como el gato con el ratón, pero nadie lo sabe”.

Al terminar la primera versión de La gaviota, Chéjov la leyó a algunos amigos y todos reconocieron a Lika y Potapenko en Nina y Trigorin respectivamente. Alarmado, rehizo la comedia.

“Potapenko no pareció encontrar en la obra nada que se refiriera a él”, escribe Natalia Ginzburg. “Lika sí se reconoció, pero no existe constancia de que hubiera dicho nada”: quizá porque, al menos, su personaje tiene dignidad. “¡Lo principal es saber sufrir!... ¡Lleva tu cruz y ten fe!... ¡Yo la tengo, y por eso mi sufrimiento es menor!... Y cuando pienso en mi vocación, no temo a la vida”, dice Nina al final de La gaviota. Como Sonia, y a diferencia, por ejemplo, de Vania, Nina no se sirve de sus heridas para amargar a los demás: al revés, de ellas saca fuerzas para seguir caminando.