venerdì 18 gennaio 2008

Tragedia, squallore, immolazione

“Non rifinite mai troppo; così facendo raffreddate la lava di un sangue ribollente, ne fate una pietra”, ha scritto Gauguin. Di Suite francese (Adelphi, 2005), il romanzo incompiuto che ha riportato alla ribalta Irène Némirovsky sessanta anni dopo la morte, si può dire veramente che è sangue alla lettera, la sua stesura essendo stata interrotta nel luglio 1942 dalla deportazione dell’autrice ad Auschwitz, dove è stata uccisa dopo pochi giorni.

A parte questo dato, nel romanzo fa impressione il contrasto tra la portata tragica del destino della Francia dopo l’invasione tedesca, nel 1940, e la meschinità della popolazione in fuga da Parigi.

I miei nonni hanno subito una esperienza simile durante la guerra di Spagna. Abitavano a Barbastro, una cittadina non lontana dai Pirenei. Nella primavera del 1938, quando Franco stava per prendere la città, sono partiti verso la Francia: lo scenario di strade piene di gente, chi a piedi, chi a dorso di mulo, chi di cavallo, era, per quanto poi mi ha raccontato mia madre (che lo sa per sentito dire: lei aveva due anni), molto simile a quello descritto dalla Némirovsky. Quella fuga è diventata particolarmente sofferta perché nella regione era rimasta isolata una divisione repubblicana che intendeva continuare con le ostilità e che le truppe di Franco hanno bombardato pesantemente (dagli appassionati di gesta militari —non è il mio caso—, l’episodio, una sorta di Termopili della mitologia repubblicana, è conosciuto come “la bolsa de Bielsa”). Mia nonna, credendo di abbandonare per sempre la Spagna, si lamentava di aver lasciato a Barbastro un armadio a specchio a cui era molto affezionata: non il massimo, insomma, come consapevolezza del momento storico... Poi però nella fuga hanno perso tutto, e finalmente dalla Francia hanno deciso di rientrare a Barbastro. La loro casa aveva subito molti danni, ma vi hanno ritrovato qualcosa che era rimasto incolume: proprio l’armadio a specchio.

Durante la fuga da Parigi, in Suite francese, muore Philippe, un sacerdote: uno dei pochi personaggi veri, a tre dimensioni, in questo romanzo con tante figure incompiute, soltanto abbozzate. Muore in modo violento, per mano dei ragazzi di un riformatorio che sta portando in salvo. È il loro capro espiatorio: la sua uccisione scongiura le loro inibizioni, li sblocca. René Girard, teorico del rapporto tra sacrificio e violenza, avrebbe qualcosa da dire.

Questa settimana, Roma ha conosciuto un altro capro espiatorio: come Philippe per i suoi ragazzi, come Irène Némirovsky e in genere “l’ebreo” per i nazisti, Benedetto XVI è stato il bersaglio di un piccolo gruppo di professori e studenti della Sapienza che lo hanno messo alla gogna e di fatto ieri gli hanno impedito di partecipare all’inaugurazione dell’anno accademico, a cui era stato invitato. La protesta silenziosa degli studenti solidali con il Papa, simbolicamente imbavagliati durante l’atto di inaugurazione, mi è sembrata pertinente. In realtà la parte mediocre, squallida, dell’Italia è esigua. Peccato che la parte sana, vera, faccia tanta fatica a riciclarla... Infatti, emergenza rifiuti non c’è soltanto in Campania.

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