venerdì 27 febbraio 2009

Las víctimas del tiempo

Un amigo sabio me decía hace poco que ya no hay en el mundo grandes filósofos: Heidegger o Gadamer, por ejemplo, ya en vida eran reconocidos como figuras eximias, me explicaba; hoy, en cambio, no se ve a nadie, entre los vivos, de ese nivel.

Algo parecido dice Milan Kundera a propósito del arte: por una misma carretera ve marchar a artistas de distintas épocas, desde Masaccio y Van Eyck hasta Matisse y Picasso. Pero después de éstos la carretera de pronto desaparece, ante el asombro de todos.

Una novela tan breve y sin pretensiones como Una letra femenina azul pálida (Anagrama, 1998), de Franz Werfel, obliga a extender esas consideraciones al ámbito de la literatura.

Objetivamente, entre la primera y la segunda mitad del siglo XX hay una diferencia abismal. En la segunda yo al menos no veo a nadie comparable a Kafka, a Eliot, a Thomas Mann... Y aunque Franz Werfel (1890-1945) no sea un genio de ese calibre, su escritura revela de modo inquietante cuánto hemos perdido, literariamente, en el curso de los decenios. ¿Por qué hoy nadie escribe con esa elegancia, con esa transparencia, con esa profundidad de visión?

Werfel, checo de cultura alemana y, como sus amigos Kafka y Max Brod, judío, fue el tercer marido de la inefable Alma Mahler, coleccionista de hombres ilustres (sus dos maridos anteriores habían sido Mahler y Walter Gropius, y también había tenido una relación con Kokoschka). Con ella huyó azarosamente de la Europa nazi en 1940 y se estableció en Estados Unidos. Y allí, en Estados Unidos, donde ser judío ya no era un peligro, Alma Mahler lo convirtió, no sé muy bien cómo, al catolicismo.

La nostalgia de la felix Austria anterior a 1914, común a tantos otros autores mitteleuropeos (Zweig, Roth, Hofmannstahl), encuentra en Una letra femenina azul pálida, publicada en 1941, una de sus parábolas más sugestivas, al menos para mí.

“La inocencia y la belleza tienen un solo enemigo, el tiempo”, escribió Yeats: verdad tan válida para la Austria idealizada de Francisco José, vista desde las turbulencias de los años treinta, como para los sentimientos juveniles del protagonista de esta excelente novela, vistos desde su prosaica madurez.

venerdì 20 febbraio 2009

La musica come maieutica

Otto anni dopo Una di loro (2001), Paola Capriolo torna da Bompiani con Il pianista muto. Riprende quindi il rapporto con la sua antica casa editrice e lascia Mondadori, dove in questi anni aveva emigrato.

Il pianista di questo nuovo romanzo è muto, non parla. E come potrebbe parlare?: ovviamente non emette parole perché il suo è un linguaggio fatto di un’altra stoffa. Che direbbero i cani di uno della loro specie che si esprima con parole anziché con latrati? Senz’altro direbbero che è muto. Ma che succederà se poi i cani si sentono interpellati, coinvolti, stregati, da quei suoni strani, così riccamente articolati, del loro collega?

Qualcosa del genere accade con il pianista muto. La sua musica inafferrabile e sublime diventa una sorta di esperanto della nostalgia in cui tutti, ricchi e poveri, colti e ignoranti, sani e malati (ci troviamo in una clinica psichiatrica), in relazione a sentimenti specifici ma in ognuno diversi, ascoltano un discorso specifico ma diverso per ognuno.

“Ancora oggi non saprei dire di cosa mi parlasse quella musica, se delle mie delusioni o delle mie illusioni tramontate, ma ne parlava con tanta cognizione di causa, come se avesse seguito passo passo il mio vagabondare”, dichiara una paziente durante una seduta con lo psichiatra.

Il pianista muto ha molto in comune con Il gigante, bellissimo racconto che compare nella prova di esordio della Capriolo, la raccolta La grande Eulalia (1988): anche in quel caso due esseri divisi da un muro di incomunicabilità riescono a dirsi vicendevolmente il loro dramma tramite la musica.

I romanzi di Paola Capriolo non hanno una trama trepidante né colpi di scena mirabolanti. Non sono neanche di quelli che ti scaldano il cuore fino a scioglierlo in lacrime. Ma lasciano il segno imperituro della bellezza. Il loro linguaggio è fatto di parole, ma sono parole con un tocco di forma tale da riecheggiare quel linguaggio superiore, angelico se non divino, che talvolta la musica misteriosamente compone.

venerdì 13 febbraio 2009

Not in my name

“È morta Eluana”. Stavo andando a cena con l’amico Leo quando la moglie, da Foligno, gli ha inviato un SMS. Era previsto, ma comunque la notizia mi ha rattristato.

Non è più il momento di parlare di Eluana, lo so. Ma, siccome tutti ne parlano, forse portare al chiacchiericcio un po’ di positività non nuoce. E a questo proposito niente di meglio del libro Strada facendo, di Luis de Moya (Cooperativa Cercate, 2001), poco diffuso in Italia ma di cui la versione originale spagnola è in rete .

Luis è medico e prete; e da quasi vent’anni, in seguito a un incidente, è anche tetraplegico. “Anche”, sì, perché dopo l’incidente continua a essere la stessa persona. Nel libro racconta, per esempio, come celebra la messa ogni giorno malgrado la sua ridottissima mobilità (diciamo tutto, sempre con l’aiuto di altri sacerdoti: più che celebrazioni, le sue sono concelebrazioni).

Strada facendo è una lettura ossigenante che testimonia di un impegno cocciuto per superare l’insuperabile. Strada facendo è la storia di Luis: una storia raccontata integra —non dal momento dell’incidente, ma dall’infanzia—, scritta a colpo di mento con un computer per disabili.

Nella sua strada, Luis non trova soltanto vittorie: con la stessa parsimonia con cui riferisce i successi, i piccoli passi in avanti, riferisce pure i passi indietro, le umiliazioni a cui lo sottopone il corpo, i momenti di scoraggiamento... Sconfitte? Infatti qualche sconfitta c’è. Ma certamente non c’é mai, nella storia di Luis, la resa. Senz’altro la fede lo aiuta: avendo la fede, dice a un certo punto, mi vedo come un miliardario che ha perso mille pesetas.

Il fatto sta che Luis vive senza mani, senza gambe, senza niente funzionante sotto la testa, senza poter fare neanche una passeggiata quando gli viene la voglia (quante cose che per noi sono scontate hanno un valore immenso!). Ma è felice: felice di portare ancora acceso il lumicino della vita.

Una volta, di mattina presto, sono svenuto: forse perché mi trovavo in una stanza chiusa con molte persone, forse perché non avevo fatto colazione, forse perché avevo appena subito una impressione forte. Comunque, ricordo bene che quando, aiutato da un medico, ho cominciato a riprendere i sensi, all’inizio (brevissimi istanti) non capivo in che posto di questo mondo mi trovassi, né in che momento della mia vita. Ma ricordo pure che sapevo benissimo una cosa: avevo coscienza di essere “io”. Tutto qua. Ma non era poco.

Ecco perché io non avrei spento quell’ultima fiammella di Eluana che fino a lunedì rimaneva ancora viva.

venerdì 6 febbraio 2009

Benedetto alla prova orale

Tanti in questi giorni, per via delle pagliacciate di un vescovo lefebvriano, criticano Benedetto XVI e dicono che Giovanni Paolo II era meglio. Io, per una questione di buon gusto, evito i paragoni papali, ma ricordo bene che anche ai tempi del suo pontificato Giovanni Paolo II era criticato da certi esperti che invece rimpiangevano Paolo VI. E mi sembra che anche ai tempi di Paolo VI non mancassero i nostalgici di Giovanni XXIII...

Ma, siccome nella vigna del Signore c’è di tutto, ecco invece Sandro Magister, un giornalista che all’epoca di Giovanni Paolo II attaccava con ferocia, dalle pagine dell’Espresso, la Chiesa ufficiale, diventato ora un fan di Benedetto XVI. Si veda, per esempio, il suo blog, Settimo cielo, raggiungibile dal sito di Repubblica.

Magister ha curato recentemente un bel libro del Papa per Scheiwiller, forse la casa editrice italiana più generosa con la poesia: Omelie. Si tratta di una antologia della predicazione del Papa nel corso dell’anno liturgico 2008, preceduta da una bella introduzione di Magister: bella e didattica, come conviene al cognome dell’autore. Poi, ogni omelia va accompagnata dalle letture bibliche della relativa cerimonia (messa o vespri).

Per quel che vale la mia testimonianza, posso dire che io nel 2008, dopo molti anni di latitanza, sono andato alla veglia pasquale in Vaticano, e che ciò che mi ha colpito di più è stato proprio l’omelia del Papa: più che la bellezza della cerimonia, più che la basilica insolitamente lucente, più che la devota, oceanica folla.

Era una omelia rivolta ai catecumeni che stavano per ricevere il battesimo, ma era ricca di figure suggestive anche per chi, come me, battezzato lo era già: l’amore che fa rimbalzare la morte nella vita; Gesù morto e risorto come nuovo passaggio del Mar Rosso (si sa che il binomio Mosè-Gesù è molto caro a Ratzinger); il fuoco della veglia pasquale che in origine si prendeva direttamente dal sole (dal cielo) per mezzo di un cristallo...

Tutte queste cose le ricordo non perché ho una memoria strepitosa (anzi), ma perché, grazie a questo libro, mi sono riletto l’omelia. È un esercizio che consiglio a tutti: non è la stessa cosa che sentire il Papa, ma la differenza non è tanta.

Per il resto, non so se l’omelia della veglia pasquale sia la migliore. Forse non lo è: leggendole, ne ho trovate altre non meno belle. Ma chiaramente è quella che ho vissuto più intensamente. Perché, si sa, ognuno ha la sua storia: anche la sua storia di fede.