venerdì 9 maggio 2008

A ritroso da Eliot a Melville

Ho visto recentemente il Moby Dick di John Huston, con Gregory Peck nei panni di Achab. Roba vecchia (1956). Sono così riaffiorate le impressioni che suscitò in me, tanti anni fa, la lettura del romanzo.

Un romanzo profetico, questo sarebbe a pieno titolo Moby Dick, secondo me.

Nel saggio Religione e letteratura (1935), Eliot sostiene che la Bibbia è rilevante in ambito letterario non per i suoi contenuti specifici o per il suo valore formale, ma per il fatto che, nel corso dei secoli, dai letterati è stata considerata come la parola di Dio. Lo dice a proposito del bisogno —da lui reclamato per l’opera d’arte— di un consenso etico e religioso nella società, idea su cui già la settimana scorsa ho detto qualcosa in questa sede.

Ebbene, in Moby Dick c’è tanta Bibbia. Dalla predica di padre Mapple —incentrata sulla storia di Giona— all’epilogo, che si apre con una citazione del libro di Giobbe, i riferimenti biblici non mancano. Ma neanche si può dire che siano di troppo: non sono mai riferimenti banali. Melville infatti ricorre alla Bibbia con una naturalezza che è prova di una totale sintonia interiore con essa: è come trascinato dalla Bibbia, come se non potesse farne a meno senza falsare il proprio io. E che altro è un profeta se non quella persona portata da una vocazione superiore a proclamare la parola di Dio?

Certo, oggi lo scrittore cristiano sa che la profezia non sarà capita, non troverà una grande accoglienza tra il pubblico. Manca il famoso consenso di cui parla Eliot. Da Moby Dick a Religione e letteratura non trascorre neanche un secolo, ma molte cose sono mutate nel panorama culturale e religioso di Occidente nel frattempo.

Molte cose sono cambiate, è vero. Io però resto convinto che, anche oggi, soltanto lo scrittore-profeta, cioè il credente impavido, il credente che non si arrende né agli altri né a se stesso, è in grado di fare della letteratura un degno corteo della Bibbia, il libro per antonomasia (o, almeno, di provarci).

4 commenti:

carlo ha detto...

già, la profezia è un carisma tutto speciale, che richiede prudenza nel ricercare le fonti del proprio sapere, fortezza nel mantenere dritta la barra del timone nella direzione del fine da perseguire, speranz aviva che si fa luce nei momenti più difficili. quell'"attender certo" di cui parlava Dante che ci fa andare oltre l'ostacolo, anche quello apparentemente decisivo per abbandonare il fronte.
grazie e complimenti epr il blog.
Luigi Murtas

ALF ha detto...

Luigi, carissimo, tu da queste parti! Grazie a te. C'è chi dice che profezia è visione, più che parola: ai taciturni come me, l'idea piace. Saluti cari. ALF.

Anonimo ha detto...

Proprio vero: visione più che parola. Credo che il riferimento più appropriato sia Daniele 8, 26 "La visione delle sere e delle mattine, di cui è stato parlato, è vera. Ma tu tieni segreta la visione, perché si riferisce a un tempo lontano».
Nella tensione tra l'ebbrezza spirituale per la comunicazione ricevuta (e l'impulso a spargere la voce immediatamente) e il dovere di tacere per non anticipare improvvidamente i tempi sta tutta la sofferenza del profeta.
O no?

carlo ha detto...

...ero sempre io...
luigi