domenica 4 maggio 2008

Così parlò Eliot

Poetessa di grande levatura, Margherita Guidacci (1921-1992) è anche un’eccellente traduttrice e critico letterario. Ne ebbi prova alcuni anni fa con un’edizione da lei curata delle poesie di Emily Dickinson, e ne ho avuto ancora, recentemente, con Il fuoco e la rosa (Petite Plaisance, 2006), il cui contenuto è esplicitato nel sottotitolo: “I Quattro Quartetti di Eliot e Studi su Eliot”. Alla prima edizione del libro, del 1975 (Studi su Eliot, con la traduzione dei Quartetti alla fine del volume, anziché all’inizio), questa aggiunge, oltre a qualche nuovo articolo felicemente recuperato, una preziosa appendice bibliografica curata da Ilaria Rabatti.

La traduzione dei Quartetti —tranne alcuni brani più tardivi di Dry Salvages e Little Gidding (quartetti terzo e quarto)— è stata realizzata dalla Guidacci nel 1946, tre anni dopo l’uscita del libro in inglese.

Gli Studi, scritti tra il 1947 e il 1988, sono undici: due sui Quattro Quartetti, due su Terra Desolata, due sul dramma The Elder Statesman, uno sulle poesie minori e quattro su vari saggi di Eliot. Tra tutti, quello che mi ha colpito di più è una recensione del saggio Le tre voci della poesia.

“La prima è la voce del poeta che parla per se stesso o per nessuno”, aveva scritto Eliot nel suo saggio (1953). “La seconda è la voce del poeta che si rivolge a un pubblico, grande o piccolo che sia. La terza è la voce del poeta quando tenta di creare un personaggio drammatico che parli in versi: quando dice non quel che direbbe in persona propria, ma solo ciò che può dire entro i limiti di un personaggio immaginario”.

Si tratta di un processo di crescente delega del poeta in maschere adatte a far presa sul pubblico. Questo processo, afferma Margherita Guidacci, si osserva nello stesso Eliot, sempre più preoccupato per la questione morale e quindi sempre più “profetico”, sia nelle liriche che nei testi teatrali.

Eppure Eliot non compie tutto il percorso. Infatti i Quattro quartetti, come Assassinio nella cattedrale, appartengono, secondo la Guidacci, non alla terza ma alla seconda voce: in sostanza, malgrado le loro apparenze drammatiche, sono monologhi, esortazioni del poeta.


Come mai? Appunto per quella preoccupazione morale, spiega Margherita Guidacci. Le sue parole conclusive, scritte mezzo secolo fa, sono più attuali di quanto sembrino. Riguardano la definizione di questa seconda voce, e tengono conto delle idee di Eliot sull’arte e sul bisogno che essa ha di un certo elemento “liturgico” che proponga un consenso etico e religioso, quel consenso che il coro greco esprimeva e che l’individualismo moderno ha smarrito. “Nell’ansia di ristabilire un rapporto fra l’individuo e la società”, dice la Guidacci, la seconda voce “ci appare come la voce che più naturalmente si offre al nostro tempo, in attesa che la riconquista di quel rapporto comunitario ci permetta di passare alla vera e propria espressione drammatica, nella quale Eliot ha probabilmente ragione di vedere la forma più interessante di poesia”.



Nessun commento: