venerdì 15 agosto 2008

Progreso y regreso

Por lo visto, Alianza lo había publicado ya en 1988, en La posada de las dos brujas y otros relatos, una recopilación de cuentos de Conrad. Yo, sin embargo, lo leí como libro a se en una edición que salió a la calle en 1993, en la colección Alianza Cien. Costaba cien pesetas.

Una avanzada del progreso, de Joseph Conrad (ofrezco link al texto completo: en inglés y en castellano), es un relato que se lee en un viaje en metro: en dos, como mucho. Pero luego uno puede acordarse de él años y años. Es lo que me ha pasado a mí. Por eso hace unos días volví a leerlo, esta vez en dos trayectos de autobús.

Kayerts y Carlier son dos blancos al frente de una factoría colonial situada a orillas de un gran río africano. Seguramente son belgas, por los apellidos, y el río, entonces, supongo que será el Congo, pero Conrad no lo dice.

Al contacto con “el salvajismo puro y sin mitigar”, la natural inquietud ante lo diferente se traducirá, en los espíritus de Kayerts y Carlier, en un pánico irracional, violento, autodestructor, en un salvajismo mucho más animalesco que ese otro salvajismo en bruto del hombre no civilizado.

Conrad formula la situación como ley general, porque lo es. Se cumple, por ejemplo, en algunas manadas de homínidos actuales que es posible observar a veces en los estadios, en las discotecas, etc.: tras ocupar un determinado espacio que reconocen como salvaje, se entregan frenéticamente al salvajismo.

En otros tiempos, el tubo de escape de la violencia, universalmente admitido, era la guerra, donde vale todo. En otros tiempos, sí..., pero también en los actuales. Esta semana ha habido guerra en un rincón de Europa: en ese Cáucaso que, irónicamente, proporciona un nombre técnico, científico, a la raza blanca.

Kayerts y Carlier, dice Conrad, “eran dos individuos perfectamente insignificantes e incapaces, cuya existencia era únicamente posible dentro de la compleja organización de las multitudes civilizadas (...): de la multitud que cree ciegamente en la fuerza irresistible de sus instituciones y de su moral, en el poder de su policía y de su opinión”.

Sustituyamos Kayerts y Carlier por Saakashvili y Putin. La frase conserva el sentido, ¿no?

1 commento:

Anonimo ha detto...

Scusate se parlo di televisione, è un forma di espressione culturale davvero “minor”
Ma c’era un tempo in cui la televisione era molto meno invadente e rispettosa dell’intimità familiare e individuale. La programmazione era abbastanza limitata e ben selezionata. Di notte, di primo pomeriggio e di mattina non si trasmetteva nulla o quasi nulla. La pubblicità non interrompeva i programmi, ma era racchiusa in spazi a essa specificamente dedicati e comunque gli spot erano delicati e morigerati, spesso anche pregevoli sul piano artistico.
Era la famosa Rai di Bernabei, quella – per intendersi – che era capace di sospendere i programmi il venerdì santo e mandare solo musica classica.
Bene: ricordo un gradevole siparietto interpretato da Mina (la più grande cantante di musica leggera italiana) e l’attore Giancarlo Giannini (interprete di alcuni ottimi film e di altri da dimenticare). I due cantavano un motivetto che diceva “come stiamo bene insiem noi che dell’amor facciamo a men”.
Non si trattava evidentemente di un invito al disamore. Si voleva invece rappresentare artisticamente un certo modo di pensare “debole” , uno stile di vita “light” che si propone unicamente di evitare i contrasti, e quindi non dire, tacere, mettere sotto silenzio tutto, anche quello che invece andrebbe rimarcato. Niente “correzioni fraterne” insomma, quelle tanto raccomandate dal Vangelo. In questo modo – dandosi sempre ragione e riempiendosi a vicenda di complimenti e salamelecchi – si “sta bene”, si sta “tranquilli”, la pace regna sovrana, come direbbero certi capi di stato soddisfatti semplicemente del quieto vivere che fa prosperare l’economia.
Ma il prezzo di questo stile di vita minimalista è – appunto come canta il motivetto – che “si fa a meno dell’amor”. Già, perché l’amore invece vede le imperfezioni nella persona amata e non le tollera almeno sinchè non è certa che non si possono rettificare, vede le disaffezioni, le disattenzioni e i veri e propri peccati e si guarda bene dal tacere. In questo senso l’amore causa sofferenza, non tollera le complicità col male ed è loquace, può ferire nell’immediato, anche se è pronto a spargere sulla ferita il balsamo del perdono, della comprensione e dell’autocorrezione.
Naturalmente bisogna anche trovare i modi più appropriati di intervenire, di richiamare, di correggere, di suggerire. E bisogna anche educare la coscienza in modo tale che questa eviti di soffermarsi su cose di poco conto, trascurando quelle davvero importanti (sarebbe come “filtrare il moscerino e far passare il cammello”).
Però bisogna parlare – a tempo e modo – ed esercitare oltre alle opere di misericordia corporale (quelle più spesso citate) anche quelle spirituali (insegnare, consigliare, ammonire, perdonare…). In una parola, bisogna amare in tutti i modi previsti e possibili, e così il motivetto sopra citato potrebbe essere modificato in quest’altro: “come ci vogliam davvero ben, noi che per amor sappiam cambiar”
Luigi Murtas