sabato 2 agosto 2008

Dostoevskij in Sardegna

Ho il debole per la Sardegna, un’isola che per alcuni anni ho frequentato assiduamente: un centinaio di volte l’avrò visitata (purtroppo, oppure per fortuna, mai da turista). In Sardegna ho tanti amici, tante persone che voglio bene... E, naturalmente, anche in campo letterario sono portato a fare il tifo per i prodotti sardi.

Alla letteratura, la Sardegna ha dato, per esempio, Grazia Deledda (1871-1936), una strana scrittrice di provincia promossa nel 1926 all’olimpo del Nobel. Di lei ho letto recentemente L’edera, romanzo che proprio quest’anno compie un secolo. Lo ripropone con oculato tempismo Il Maestrale, una casa editrice di Nuoro.

Canne al vento, forse il romanzo più conosciuto di Grazia Deledda, mi era piaciuto tanto, con quelle quattro sorelle in cui la Sardegna rurale, immobile, tragica..., prende corpo e voce. Quattro sorelle che è impossibile non vedere in continuità con i quattro figli di Fedor Karamazov, interamente, ossessivamente calati nel tremendo.

Anche L’edera è popolata di personaggi da accostare a quelli di Dostoevskij, a cominciare da Annesa, “l’edera” che non può avere altra vita se non quella degli esseri —talvolta disinteressati, talvolta meschini— a cui si trova attaccata. Il suo percorso richiama quello di Raskolnikov in Delitto e castigo. Originale mi sembra la risoluzione simmetrica della vicenda, con la redenzione di Annesa che si concretizza nel votarsi tutta a essere di sostegno per Paulu, l’antico padrone, diventato per prematura vecchiaia un rampicante senza possibilità di vita propria.

A me però fa impressione soprattutto il fondale di questa storia. Un paesaggio in cui l’uomo non è riuscito a dare un volto proprio alla creazione: “La chiesa, le stanze, la torre, d’una costruzione primitiva, di pietre rozze e di fango, avevano preso il colore cupo e rugginoso delle rocce circostanti”. Aggettivi come “primitivo”, “rozzo”, addirittura “preistorico”, compaiono in continuazione nelle pagine del romanzo.

È quella la Sardegna vera, naturalmente, non certo la Costa Smeralda.

4 commenti:

Anonimo ha detto...

Non potevo perdermi questa recensione.
Di Grazia Deledda va ricordato che era oltre che scrittrice di livello anche madre e sposa cristiana, dedita alla famiglia in modo esemplare. La cura per la famiglia non veniva mai posposta al successo.
Significativo un episodio che la vide protagonista nei confronti dell'altro celebre Nobel Luigi Pirandello. Questi aveva pubblicato un romanzetto minore intitolato "Giustino Roncella nato Boggiolo" nel quale la scrittice sarda riconobbe la propria vicenda personale e vide messa in ridocolo la figura del proprio marito Palmiro Madesani. Per questo chiese e ottenne che il romanzetto fosse tolto dalla circolazione, e infatti fu ripubblicato postumo, nel 1941, a cura del figlio di Luigi Pirandello, Stefano.
Luigi Murtas

Anonimo ha detto...

Chiedo scusa anticipatamente per l'invadenza, ma penso che se questo è un cenacolo, dopotutto gli ospiti debbano risultare ben graditi.
Visto che parliamo di romanzieri sardi, vorrei citarne un altro ugualmente valido: Salvatore Satta.
Satta non era uno scrittore a tempo pieno, infatti di mestiere faceva il giurista. Era uno dei più insigni studiosi del processo civile: la sua sistematizzazione della giustizia civile, riassunta nel celebre manuale (in uso in quasi tutti gli atenei italiani per lunghi anni)lo rese celebre nell'ambiente dei cultori del diritto.
Però trovava anche il tempo di dedicarsi alla letteratura e riuscì a comporre aluni testi, il più famoso dei quali è senz'altro "il giorno del giudizio". E' curioso come Satta per lungo tempo non riuscì a pubblicare il volume, la cui lettura rimase limitata alla cerchia dei meravigliati professori di legge, che non si aspettavano di scoprire questa vena letteraria nel loro collega. Per le insistenze dello stesso Satta la casa editrice CEDAM (specializzata in pubblicazioni scientifiche, in particolare giuridiche)accettò di stamparne una tiratura limitata, ma solo dopo la morte dell'autore la casa editrice Adelphi (1981) diffuse il romanzo nel mercato più ampio.
Dalle pagine del romanzo di Satta emerge una fede solida, anche se per certi versi ruvida, asciutta, per molti versi condizionata dall'angolatura professionale dell'autore: la vita come processo, come sottoposizione a un'istruttoria continua in vista della sentenza finale. Non è difficile intravvedere uno spirito di esame estremamente sviluppato, senza coloriture particolari e diversivi.
Per Satta del resto il collegamento tra la vita e la fede era evidente: mi colpì molto - da giovane studente di giurisprudenza - un'espressione che egli inserì nella bellissima introduzione al manuale di procedura civile (un testo davvero commovente, ben più che un'arida presentazione di un trattato di diritto, ne consiglio la lettura). L'espressione, più o meno diceva così: "sembrerà forse stravagante l'idea di presentarsi al giudizio finale con un libro di procedura civile, ma la procedura civile è il talento che Dio mi ha affidato e sono convinto che l'averlo coltivato con coscienza varrà a farmi molto perdonare in quel giorno".
Insomma, la santificazione del lavoro era una prospettiva ben presente allo scrittore, vissuto (singolare coincidenza) tra il 1902 e il 1975, in perfetta contemporaneità con san Josemarìa Escrivà, che della santificazione del lavoro era l'apostolo.
Luigi Murtas

Anonimo ha detto...

Caro ALF, visto che non mi fermi, io vado avanti.
Continuo con qualche considerazione su Salvatore Satta. Qualche anno fa, la benemerita casa editrice Rubbettino ha pubblicato per la penna del prof. Borzì, docente di storia del cristianesimo a Catania - il volumetto intitolato “il cristianesimo laico di Salvatore Satta”. E’ una lettura rapidissima, il libro costa 5 euro e si legge tranquillamente durante una fila alle poste per pagare l’ICI (chi ha la seconda casa, s’intende).
Il titolo è suggestivo: Satta è cristiano ed è laico. Laico non nel senso in cui comunemente questo termine viene inteso, cioè laicista, refrattario a ogni verità oggettiva e pertanto votato al relativismo etico e alla fine anche ontologico, bensì laico nel senso in cui lo intende la Chiesa nel codice di diritto canonico, ossia di semplice battezzato non insignito né dell’ordine sacro né della consacrazione religiosa o secolare.
E infatti Satta era davvero laico, non era nemmeno un frequentatore di sacrestie o di ambienti del cattolicesimo ufficiale, quello che a volte si fa prendere un po’ la mano e inizia a sdottorare e a insegnare anche ai Vescovi la dottrina cattolica. (Mi viene in mente un aneddoto raccontato da Francesco Cossiga nel suo divertente libro intervista con Claudio Sabelli Fioretti “l’uomo che non c’è”. L’aneddoto parla dell’ambasciatrice americana nell’immediato dopoguerra (cattolica praticante), la quale fu ricevuta da Pio XII in udienza e approfittò dell’occasione per mettere in guardia il papa dal pericolo che rappresentava anche per la Chiesa l’espansione del comunismo in Europa. L’ambasciatrice era talmente insistente e si premurava di inserire argomentazioni raffinate anche sul piano teologico, che il papa la dovette interrompere con una battuta: “signora” – disse – “si ricordi che sono cattolico anche io”).
Insomma, Satta non era davvero uno di quelli che oggi si autodefinirebbero “cattolici adulti”, quelli – per intendersi - che di fronte a chiare indicazioni del Magistero anche sui comportamenti da tenere in ambito politico riescono sempre a trovare argute motivazioni per fare esattamente il contrario, con la scusa che non sarebbero indicazioni vincolanti e chiamando in causa la “libertà di coscienza”, ma senza chiedersi abbastanza spesso se una coscienza che sistematicamente dica il contrario di quello che dicono i Vescovi possa ancora definirsi una coscienza cattolica.
Bene: la profonda fede di Satta, in uno con il suo altissimo spessore culturale e professionale, è dimostrata in particolare nella vicenda della legge sul divorzio e del successivo referendum abrogativo. Secondo Satta, con la legge sul divorzio, ciò che mutava era “la vita spirituale dell’individuo, nella sua proiezione più alta (la parola si trova nella Costituzione)che è la famiglia”. E ancora: “il senso del sacro che per migliaia di anni ha accompagnato il matrimonio cederà più o meno lentamente all’idea del transeunte e dell’effimero” (previsione più che azzeccata, ahimè). L’articolo in cui Satta esprime la sua visione è intitolato “i sofismi dei divorzisti” ed è comparso nell’ottobre del 1970 subito dopo l’approvazione della legge sul divorzio. Secondo Satta “per il costituente, come per noi, il matrimonio non può essere che quello che abbiamo sempre conosciuto, il “nostro” matrimonio, col suo carattere di indissolubilità”.
E’ significativo che un giurista così illustre potesse fare riferimenti al sacro in una rivista scientifica, cosa che oggi forse determinerebbe la revoca della cattedra universitaria. Ma è ancora più significativo che la profonda fede di Satta non lo dispensasse dalla correttezza e dal rigore del ragionamento giuridico.
Per il momento basta così, se no il discorso si allunga troppo. Però, se ALF mi da altro spazio, vorrei dire poi qualcosa che ha raccontato sempre Cossiga (allievo di Satta) a proposito della vicenda sul referendum.
Saluti, Luigi Murtas

Anonimo ha detto...

Il referendum sul divorzio non era molto gradito alle forze politiche e per tentare di scongiurarlo l’allora segretario politico della DC Amintore Fanfani pensò di tentare una strategia collaborativa col PCI. Avrebbe offerto ai comunisti un progetto di legge di riforma che potesse andare a bene a entrambe le forze e evitasse la consultazione.
L’incarico di studiare un’ipotesi di testo legislativo fu conferito proprio a Francesco Cossiga che collaborò con Salvatore Satta, studioso del processo civile e quindi direttamente interessato al divorzio.
Per farla breve, fu individuata la famosa ipotesi del “doppio regime matrimoniale”: il matrimonio celebrato col solo rito civile sarebbe stato considerato divorziabile, mentre il c.d. “matrimonio concordatario”, cioè il matrimonio canonico con effetti civili, sarebbe stato considerato indissolubile anche dallo Stato, a meno che il (o i) coniugi non avessero formalmente abiurato dalla fede cattolica, con atto pubblico notarile (assumendosi così una bella responsabilità di fronte a Dio).
La proposta – stando sempre a quello che racconta Cossiga nell’intervista – piacque al segretario del PCI Enrico Berlinguer (che – detto per inciso – era anche il cugino di Cossiga) e quindi tutto era pronto per l’approvazione in sede parlamentare.
Senonchè il segretario della DC Fanfani ricevette un “imput” dalla Santa Sede che preferiva che i cattolici italiani dessero una testimonianza pubblica promuovendo e sostenendo il referendum. A questo punto Fanfani molto sbrigativamente chiuse la questione dicendo “ringraziamo Cossiga, ma non se ne fa niente, si va al referendum”. Il referendum – come noto – non diede purtroppo i risultati sperati e il divorzio potè produrre tutti i suoi nefasti effetti sul tessuto della famiglia e – conseguentemente – della società italiana.
Segnalo questo racconto perché mi sembra indice di un atteggiamento molto maturo da parte dei politici dell’epoca e in particolare di Fanfani, il quale obbedì all’indicazione del papa anche se avrebbe volentieri evitato il referendum. Inoltre assunse personalmente la guida del fronte referendario, spendendosi con vigore e facendo sue tutte le tesi referendarie. Insomma: un obbedienza esemplare, che indica tutt’altra consapevolezza della propria identità cristiana rispetto a più recenti episodi in casi analoghi.
Luigi Murtas