venerdì 14 dicembre 2007

Le lettere di Cristina Campo a Leone Traverso

Poetessa, traduttrice e saggista, Vittoria Guerrini, più conosciuta come Cristina Campo (1923-1977), ha avuto in vita un apprezzamento quasi nullo. Oggi invece va di moda: è oggetto di convegni, saggi, biografie... Molte persone hanno contribuito, con il loro lavoro, a portarla sotto i riflettori, ma vanno menzionate soprattutto due: l’amica Margherita Pieracci Harwell e l’editore Roberto Calasso.
Margherita Harwell (Mita), già docente di letteratura negli Stati Uniti, è un’esegeta acuta, suggestiva e ben informata. A lei si deve il ricco apparato critico di cui sono corredati due libri imprescindibili per avvicinarsi alla Campo: Gli imperdonabili (1987), che comprende quasi tutta la sua opera saggistica, e Lettere a Mita (1999).
Da pochi mesi è nelle librerie Caro Bul (Adelphi, 2007), quinto epistolario pubblicato di Cristina Campo, di nuovo con Margherita Harwell come curatrice.
“Bul” è il nomignolo creato dalla Campo per Leone Traverso (1910-1968), una delle principali figure dell’ermetismo poetico fiorentino, con Mario Luzi e Carlo Bo. Tredici anni più grande di lei, è il suo mentore letterario fino a metà degli anni cinquanta, quando tutti e due abbandonano Firenze: lui verso Urbino, lei verso Roma. Il rapporto, che da didattico era diventato, nel frattempo, sentimentale, subisce poco dopo una battuta d’arresto ed entra in una fase meno intensa in cui rimangono, comunque, l’amicizia e la reciproca ammirazione.
Le lettere a Leone Traverso forniscono interessanti informazioni sull’habitat letterario di Cristina Campo. Per me è stata una sorpresa, per esempio, una lettera del 1962 in cui si lamenta di non poter recensire, per esigenze delle riviste a cui collabora, i libri degli “addirittura sublimi poeti catalani” usciti nell’anno.
Soprattutto, le lettere della Campo sono un modello di comunicazione psicologica, da anima a anima, in profondità. Una comunicazione fatta di parole, ma anche di silenzi, di impliciti, di un pudore che, anche per chi ignora il succo dei fatti taciuti, diventa più eloquente che il discorso grossolanamente esplicito: “Perché non dirmi che partivi? Ti avrei augurato buon viaggio; in più ti avrei dimostrato (col solo dirti «Pronto») che avevo capito, ripensandoci, le tue parole di iersera. Non scrivermi, Bul. Non è necessario. Sii sereno” (Firenze, 19-IV-1953).
Per Cristina Campo, la corrispondenza epistolare diventa ciò che per altri autori è il diario: lo specchio dell’interiorità e il primo campo di battaglia della scrittura. Il vantaggio è che dall’interazione diretta con le persone care a cui dà luogo la corrispondenza risulta un messaggio molto più nitido, molto più precisato di quello che di solito si può riflettere nell’autoreferenzialità di un diario.

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