Nel mese di agosto ho
trascorso alcuni giorni in un paesino di montagna della provincia di Brescia,
in un ostello accogliente e in bella compagnia di persone e di libri. Tra
questi, una antologia di Ungaretti curata da Giovanni Raboni tanti anni fa per
Mondadori: Vita d’un uomo. Il titolo è lo stesso dato da Ungaretti
all’insieme della sua opera, ma questa è soltanto una antologia di un centinaio
di poesie.
Giuseppe Ungaretti ha
combattuto nella prima guerra mondiale. Dal posto dove mi trovavo, certe gite
mi hanno condotto ad alcuni scenari di quella guerra che adesso, con i
ghiacciai ritirandosi sempre più velocemente, rivelano le loro antiche trincee
dopo anni di nascondimento. Sulla cima del Vioz si vedevano baracche e
camminamenti dell’esercito austriaco appena riemersi dalla coltre di ghiaccio,
e un elicottero che faceva avanti e indietro per trasportarvi il materiale atto
per le prospezioni.
Oggi la nostra Europa,
l’Europa del nobel della Pace, vede le vestigia di quella guerra con un misto
di ammirazione e di tenerezza. Ungaretti vedeva sicuramente poco da ammirare in
se stesso quando scriveva quei quattro versi lapidari:
Si sta come
d’autunno
sugli alberi
le foglie.
d’autunno
sugli alberi
le foglie.
Del giovane Giuseppe
Ungaretti, la guerra ha fatto un poeta. Poi, dopo un cupo periodo intermedio di
dichiarazioni di stanchezza e di inni alla morte, altre esperienze, come la
morte della madre o del figlioletto Antonio, di nove anni, nel 1939, hanno dato
luogo a poesie strazianti, bellissime, intrise addirittura di comunione con il
divino. Ma la poesia in lui non nasce con quei sentimenti sublimi e laceranti:
era nata dal grembo della guerra, come un fiore che spunta dallo sterco.
È il bello della poesia; oppure, se vogliamo, è il
bello di questo mondo schifoso.
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