venerdì 30 aprile 2010

Così piccoli, così grandi (ancora Auschwitz)

Prima della biografia di Edith Stein avevo letto quella di un’altra ebrea, convertita pure al cristianesimo e finita pure ad Auschwitz: Irène Némirovsky (1903-1942), grande scrittrice francese, anche se russa di nascita, e donna, a mio avviso, di grandi qualità morali, tanto per smentire il topico della sregolatezza del genio.

La vita di Irène Némirovsky, di Olivier Philipponat e Patrick Lienhardt (Adelphi, 2009) è una buona biografia, alla misura del personaggio. Peccato che talvolta sia appesantita dalla troppa foga con cui combatte certi pregiudizi dell’epoca.

Comunque, devo dire che il tema della conversione, che per il momento in cui avviene è necessariamente polemico (Irène e i suoi —marito e due figlie— ricevono il battesimo nel febbraio 1939), è trattato in modo serio.

“Sa benissimo che niente, nemmeno l’acqua battesimale, potrà lavarle il sangue. «Allora, perché?» le chiede Cécile. «Perché avete cambiato religione, voi che siete migliore di tanti cattolici?»”. Cécile è Cécile Michaud, la bambinaia delle figlie, una donna in cui Irène ripone totale, meritata fiducia; una donna che con questa frase si è guadagnata anche la mia simpatia di lettore cattolico.

Philipponat e Lienhardt sostengono che, in realtà, un atteggiamento di fronte alla Chiesa come quello della Némirovsky era allora un fenomeno non raro tra gli intellettuali ebrei, e fanno l’esempio del filosofo Henri Bergson. Nel suo testamento, datato 1937, quattro anni prima della morte, Bergson aveva confessato di essere giunto alla conclusione che il cristianesimo fosse la compiuta realizzazione dell’ebraismo, anche se per solidarietà con il suo popolo, in quel momento di antisemitismo in piena, non voleva ricevere il battesimo.

La posizione di Bergson è nobile quanto quella della scrittrice. E il fatto che lui sia deceduto a Parigi di morte naturale e lei invece ad Auschwitz è soltanto uno scherzo del destino.

Perché, allora? Philipponat e Lienhardt parlano di alcuni sacerdoti che sono stati decisivi nella sua conversione: soprattutto Roger Bréchard, che morirà eroicamente in guerra e ispirerà il personaggio più positivo di Suite francese, il padre Péricand; poi Georges Chevrot, parroco di Saint-François-Xavier; infine, il rumeno Vladimir Ghika, compagno dei Maritain nell’impegno di catechizzare il milieu culturale francese e futuro martire del comunismo.

La produzione degli ultimi anni di Irène, quella rimasta in buona parte inedita fino a pochi anni fa e a cui deve, in sostanza, il suo attuale revival, prende avvio da una frase sentita a Chevrot in una messa domenicale nel settembre 1939, appena cominciata la guerra: “Come siamo piccoli, fratelli, e come siamo grandi”.

La Francia in guerra che procede in misera parata sulle pagine di Suite francese è fatta di gente piccola, meschina. Ma in quelle anime c’è qualcosa di grande..., se grande significa tragico, naturalmente.

Grande è stato, per esempio, il destino non solo di Irène Némirovsky, ma anche del marito, quell’oscuro Michel Epstein che, dopo l’arresto della moglie, si è esposto inutilmente per cercare di salvarla, senza altro risultato che quello di essere anche lui deportato ad Auschwitz e lì fatto morire.

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