venerdì 15 gennaio 2010

Natalia Ginzburg: un tocco di leggerezza

Molto interessante, l'ultimo articolo di Cesare Segre sul Corriere: quello dell’altro ieri. Un articolo sui registri del linguaggio: su perché certe parole, certe metafore, certi modi di dire sono in vigore, appartengono a mondi particolari, con esclusione degli altri; e cioè non sono scambiabili, o non dovrebbero esserlo, con espressioni, pur semanticamente equivalenti, proprie di altri mondi.

Leggendolo ho pensato a Lessico famigliare, il commovente romanzo autobiografico di Natalia Ginzburg. A quasi mezzo secolo dalla sua apparizione, Einaudi ne ha sfornato in queste settimane una nuova edizione, con postfazione di Domenico Scarpa (una postfazione, diciamo la verità, che non ho letto).

Lessico famigliare è, certamente, la storia dell’autrice e delle persone a lei care, dai genitori al marito Leone, da Olivetti a Pavese. Ma questa storia è raccontata con cenni rapidi, fugaci, elusivi. La colonna vertebrale del romanzo è, in realtà, il rapporto che Natalia stabilisce con il mondo, a partire dall’infanzia, tramite il sistema di segni e significati in cui viene educata: “diceva mio padre...”, “mia mamma diceva...”, sono espressioni che la Ginzburg infilza in continuazione nel libro; formule magiche che rimandano a una forza segreta e che consentono di dare anche al racconto dei fatti più duri un tocco sorprendente di leggerezza.

Ecco, per esempio, il racconto della morte del marito, che nella foto vediamo con lei. Siamo a Roma alla fine del 43, durante l’occupazione tedesca: “Arrivata a Roma, tirai il fiato e credetti che sarebbe cominciato per noi un tempo felice. Non avevo molti elementi per crederlo, ma lo credetti. Avevamo un alloggio nei dintorni di piazza Bologna. Leone dirigeva un giornale clandestino ed era sempre fuori di casa. Lo arrestarono, venti giorni dopo il nostro arrivo; e non lo rividi mai più”.

Ed ecco, nel paragrafo successivo, il rimando al lessico famigliare: “Mi ritrovai con mia madre a Firenze. Aveva sempre, nelle disgrazie, un gran freddo; e si ravviluppava nel suo scialle. Non scambiammo, sulla morte di Leone, molte parole. Lei gli aveva voluto molto bene; ma non amava parlare dei morti, e la sua costante preoccupazione era sempre lavare, pettinare e tenere ben caldi i bambini”.

In questo caso, il lessico famigliare è fatto di parole non dette. Di silenzi pregnanti, svettanti all’apice della leggerezza. Perché, come dice Steiner, il silenzio è sempre più vero.

Nessun commento: