Murnau ha intitolato il suo film Faust: una leggenda tedesca. E, come lui, anche Thomas Mann ha fatto del protagonista di Doktor Faustus una figura dell’homo germanicus. Ma in realtà nel secolo XX Faust ha valicato i confini della Germania: è diventato, più genericamente, un archetipo dell’uomo occidentale.
Decisivo è stato, in questo processo, Oswald Spengler (1880-1936). Nel saggio Il tramonto d’Occidente, Spengler presenta la storia dell’umanità come la successione di otto grandi civiltà, ognuna con una durata di mille anni circa: egiziana, babilonese, cinese, indiana, messicana, apollinea, magica e faustiana. La nostra, dice Spengler, è una civiltà faustiana perché caratterizzata dalle contraddittorie aspirazioni dell’uomo occidentale: bene e potere, amore e possesso... Sarebbe, comunque, una civiltà al capolinea, come rilevano alcuni fenomeni contemporanei (astrattismo, massificazione) tipici delle fasi di declino.
Al pessimismo di Spengler si oppone lo storico inglese Arnold Toynbee (1889-1975) in un libro altrettanto geniale, Uno studio della storia (1934-1954), opera in dodici volumi che a un certo punto una collaboratrice dell’autore, Dorothea Grace Somerwell, ha compendiato in tre. È questo compendio, firmato da Toynbee, ciò che la maggior parte dei lettori di Uno studio della storia, me compreso, ha letto. In inglese conserva lo stesso titolo (cioè A Study of History). In italiano, invece, fu pubblicato come Storia comparata delle civiltà (Newton Compton, 1974).
Infatti, anche per Toynbee i grandi attori della storia sono le civiltà. Ma la sua mappa delle civiltà è diversa di quella di Spengler. Toynbee dimostra, per esempio, che in ogni momento della storia ci sono varie civiltà attive, non soltanto una. Nel secolo XX ne identifica cinque: cristiana occidentale, cristiana orientale, islamica, induista e estremo orientale. Altre sedici sono morte nel corso della storia (per esempio, la civiltà ellenica, madre della cristiana occidentale e della cristiana orientale).
Soprattutto, Toynbee non ammette che la nostra civiltà, da lui denominata cristiana occidentale, stia per morire. La sua fiducia nella libertà dell’uomo come motore della storia, e anche la sua fiducia nei valori spirituali (insomma, la fiducia nell’uomo e in Dio), lo conducono alla conclusione che la storia è sì ciclica, ma anche progressiva. Secondo lui, la società cristiana occidentale, malgrado il suo apparente tramonto, è spiritualmente attrezzata non soltanto per non morire (la storia dimostra che è sempre possibile, nell’ora critica, una palingenesi), ma per dare la propria impronta, in un mondo sempre più globalizzato, alle altre quattro ancora in vita.
Io non credo nell’eternità della società cristiana occidentale, ma mi attira l’impostazione di Toynbee. Preferisco riconoscermi in una civiltà cristiana occidentale che in una civiltà soltanto faustiana. Perché, in quanto occidentale, è faustiana (con tanto, quindi, di nobili aspirazioni); ma, in quanto cristiana, si fonda sul rapporto uomo-Dio anziché uomo-demonio.
Insomma, ci sono ancora nella nostra civiltà, come nelle altre, tante riserve di energia da far venire in luce. Sarà una luce crepuscolare, d’accordo (tra l’altro, l’Occidente si addice al tramonto, come l’Oriente all’aurora); ma è sempre una luce che illumina.
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1 commento:
Ho appena terminato la lettura di un testo piuttosto risalente del prof. Rocco Buttiglione: "Dialettica e nostalgia. Gli inizi della Scuola di Francoforte e l'ultimo Horkheimer"
Nostalgia di cosa? Nostalgia del "totalmente altro ", "totaliter aliter", come nel celebre apologo raccontato da Hans Franck.
Per Horkheimer e altri pensatori come lui questa nostalgia è una forza interiore all'uomo e immanente alla storia, che spinge per il superamento della situazione consolidata e permette la liberazione dai limiti imposti dalle strutture di potere.
Per il credente il "totalter aliter" si indentifica col Dio personale e Trinitario e la nostalgia è un dono mistico, un richiamo del Padre verso la patria celeste. Ma questo richiamo è tutt'altra cosa da una fuga dalla realtà, porta anzi a immergersi in essa per tendere la mano al fratello troppo attratto da essa e, insieme a lui, avanzare verso la meta definitiva senza rinunciare - in itinere - a costruire spazi di vera libertà da ogni schiavitù rispetto ai beni e ai bisogni per coltivare quell'"unum necessarium" che ci salva.
Lodevole la citazione che Buttiglione fa della ricerca (purtroppo mai pubblicata) che Horkheimer realizzò insieme allo scrittore Thomas Mann durante la seconda guerra mondiale fra i perseguitati dal nazismo, dalla quale emerse con chiarezza che i deportati trovarono assistenza soprattutto in persone spinte da motivazioni religiose e - in modo specifico - dai cattolici. Sarebbe interessante poterla leggere in tempi di polemiche strumentali (favorite - occorre pure dirlo - da dichiarazioni incaute di qualche esponente di spicco della Chiesa) nei confronti dell'atteggiamento asseritamente "tiepido" dei cattolici nei confronti dell'Olocausto.
Luigi Murtas
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