Simone Weil è una filosofa francese. Nata a Parigi nel 1909, in una famiglia ebrea non osservante, è morta in Inghilterra, esule, nel 1943.
Nel 1938, proprio durante le funzioni liturgiche della settimana santa (si trovava nell’abbazia di Solesmes, facendo esperienza di lavoro agricolo), Simone Weil si è convertita, travolta da ciò che lei stessa ha riconosciuto subito come la grazia. Poi però non si è fatta battezzare: non sentendosi intellettualmente pronta a entrare nella Chiesa, ne è rimasta sulla soglia fino alla morte, in attesa.
“Una cosa è assolutamente certa: se un giorno accadrà che io ami Dio tanto da meritare la grazia del battesimo, riceverò questa grazia in quello stesso giorno, infallibilmente, nella forma che Dio vorrà: in quella del battesimo propriamente detto, o in qualunque altra. Perché allora dovrei preoccuparmi? Non tocca a me pensare a me stessa. A me spetta di pensare a Dio. E a Dio spetta di pensare a me”. È un passo di Attesa di Dio (Rusconi, 1998), raccolta di scritti di argomento religioso pubblicata dal domenicano Joseph-Marie Perrin —la sua guida spirituale nel cammino, non concluso, verso il cattolicesimo— nel 1950. Per una buona parte si tratta di lettere indirizzate allo stesso padre Perrin, che del pensiero della Weil è stato il grande apologeta in ambito cattolico, insieme al filosofo Gustave Thibon.
Dopo l’occupazione tedesca, Simone Weil ha lasciato l’insegnamento e ha lavorato per un certo periodo nella fattoria di Thibon in Provenza. Come a Solesmes (e come alla fabbrica Renault, dove per un tempo aveva lavorato come fresatore), la spingeva il desiderio di mettersi nei panni dell’umanità sofferente, sventurata. Infatti, motivo centrale del suo pensiero e del suo impegno (se mai c’è stata una filosofia impegnata, è quella di Simone Weil) è il malheur: la sventura, che nei misteri del venerdì santo trova il suo archetipo.
“È proprio nella sventura che risplende la misericordia di Dio; nel profondo, nel centro della sua inconsolabile amarezza”, leggiamo ancora in Attesa di Dio. “Se perseverando nell’amore si cade fino al punto in cui l’anima non può più trattenere il grido: «Mio Dio, perché mi hai abbandonato?», se si rimane in quel punto senza cessare di amare, si finisce col toccare qualcosa che non è più la sventura, che non è la gioia, ma è l’essenza centrale, essenziale, pura, non sensibile, comune alla gioia e alla sofferenza, cioè l’amore stesso di Dio”.
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