venerdì 28 marzo 2008

Simone Weil e i greci

Con alcuni testi di Simone Weil sullo spirito della Grecia classica è stato composto nel 1967, in Italia, La Grecia e le intuizioni precristiane (Borla, ultima edizione 1999), libro dal titolo apparentemente archeologico ma, in realtà, attuale come pochi.

Attuale perché oggi abbiamo un Papa che non cessa di rivendicare la razionalità della fede —il discorso di Ratisbona è soltanto un esempio, neanche il più esplicito— e che sostiene, senza troppi giri di parole, che per la religione cristiana l’incontro con la filosofia greca, ai primordi della sua traiettoria, non è stato un caso ma un fatto necessario per la sua configurazione, davanti alla storia, come religione della verità. E non è soltanto che lo dice il Papa: da una parte la sfida del fondamentalismo, da un’altra la risposta violenta, cioè la guerra al fondamentalismo, urlano nei nostri giorni un grande bisogno di punti d’incontro tra trascendenza e razionalità.

Sia chiaro: Simone Weil e il Papa non dicono le stesse cose. Una differenza è che Benedetto XVI, a proposito della Grecia, parla soltanto di pensiero, di filosofia, e Simone Weil di filosofia e di altro: l’anima naturaliter christiana di Platone troneggia sulla maggior parte dei suoi saggi, ma ci sono anche, in questo libro, testi molto belli su poesia, mitologia, scienza... dell’antica Grecia.

Soprattutto la Weil, contrariamente al Papa, non ha in gran conto la razionalità socratica come fondamento della cultura ellenica e postellenica. Infatti nell’anima greca lei cerca non un appoggio strumentale della religione cristiana, ma piuttosto un insieme di elementi spirituali direttamente consoni ad essa. Così L’Iliade, poema della forza subita, annuncia i racconti evangelici della Passione; il mito platonico della caverna rivela l’origine e il destino soprannaturali dell’uomo; il punto d’appoggio con cui Archimede dice di poter spostare il mondo è il Cristo incarnato, in mano al Padre che agisce sulla leva.

Ripeto: in realtà Simone Weil non si pone sulla stessa lunghezza d’onda di Benedetto XVI. Ma sicuramente nel suo pensiero ci sono spunti che potrebbero complementare l’odierno discorso cristiano. Infatti anche lei vede, dietro molte di queste intuizioni greche, un preciso disegno divino. Lo manifesta a chiare lettere, per esempio, la conclusione del suo commento al Timeo di Platone, suggestiva visione del mondo come specchio di quell’Amore che è Dio stesso. “Questa concezione trascendente della provvidenza”, scrive Simone Weil, “è l’insegnamento essenziale del Timeo. Insegnamento di tale profondità che non posso credere sia disceso nel pensiero umano altrimenti che per rivelazione”.

venerdì 21 marzo 2008

Il Dio di Simone Weil

In questo venerdì santo segnato dal ritorno alla preghiera per la conversione degli ebrei, l’invito alla lettura di Simone Weil non vuole essere una provocazione.

Simone Weil è una filosofa francese. Nata a Parigi nel 1909, in una famiglia ebrea non osservante, è morta in Inghilterra, esule, nel 1943.

Nel 1938, proprio durante le funzioni liturgiche della settimana santa (si trovava nell’abbazia di Solesmes, facendo esperienza di lavoro agricolo), Simone Weil si è convertita, travolta da ciò che lei stessa ha riconosciuto subito come la grazia. Poi però non si è fatta battezzare: non sentendosi intellettualmente pronta a entrare nella Chiesa, ne è rimasta sulla soglia fino alla morte, in attesa.

“Una cosa è assolutamente certa: se un giorno accadrà che io ami Dio tanto da meritare la grazia del battesimo, riceverò questa grazia in quello stesso giorno, infallibilmente, nella forma che Dio vorrà: in quella del battesimo propriamente detto, o in qualunque altra. Perché allora dovrei preoccuparmi? Non tocca a me pensare a me stessa. A me spetta di pensare a Dio. E a Dio spetta di pensare a me”. È un passo di Attesa di Dio (Rusconi, 1998), raccolta di scritti di argomento religioso pubblicata dal domenicano Joseph-Marie Perrin —la sua guida spirituale nel cammino, non concluso, verso il cattolicesimo— nel 1950. Per una buona parte si tratta di lettere indirizzate allo stesso padre Perrin, che del pensiero della Weil è stato il grande apologeta in ambito cattolico, insieme al filosofo Gustave Thibon.

Dopo l’occupazione tedesca, Simone Weil ha lasciato l’insegnamento e ha lavorato per un certo periodo nella fattoria di Thibon in Provenza. Come a Solesmes (e come alla fabbrica Renault, dove per un tempo aveva lavorato come fresatore), la spingeva il desiderio di mettersi nei panni dell’umanità sofferente, sventurata. Infatti, motivo centrale del suo pensiero e del suo impegno (se mai c’è stata una filosofia impegnata, è quella di Simone Weil) è il malheur: la sventura, che nei misteri del venerdì santo trova il suo archetipo.

“È proprio nella sventura che risplende la misericordia di Dio; nel profondo, nel centro della sua inconsolabile amarezza”, leggiamo ancora in Attesa di Dio. “Se perseverando nell’amore si cade fino al punto in cui l’anima non può più trattenere il grido: «Mio Dio, perché mi hai abbandonato?», se si rimane in quel punto senza cessare di amare, si finisce col toccare qualcosa che non è più la sventura, che non è la gioia, ma è l’essenza centrale, essenziale, pura, non sensibile, comune alla gioia e alla sofferenza, cioè l’amore stesso di Dio”.

Si capisce che anche i suoi avversari tra gli intellettuali cattolici, come il belga Charles Moeller, molto critico della sua deriva gnostica, le riconoscano non soltanto integrità morale e generosità (per esempio, distribuiva tra gli operai il suo stipendio come insegnante, tenendosi soltanto l’equivalente al loro salario), ma addirittura un vero misticismo: Simone Weil è lontana dall’autentico cristianesimo, dice Moeller, ma nel cielo sarà più in alto di molti cristiani.

venerdì 14 marzo 2008

Superficie e profondità secondo Alberoni


Oggi è venerdì e dovrei scrivere un post, ma oggi è anche il mio compleanno e quindi faccio festa. Lascio il posto a Francesco Alberoni: ecco un articolo suo che ho trovato sul Corriere della sera qualche tempo fa e che mi sembra illuminante.

Se la banalità dilaga alla fine l’arte ci salverà

In tutti gli uomini c'è una superficie e una profondità. La superficie è piatta e uguale, la profondità un abisso. Noi viviamo abitualmente in superficie, nel mondo della banalità, del si dice, della chiacchiera, del distrarsi, del ripetuto, dove non ci sono emozioni ma, al massimo, sorpresa o curiosità. La curiosità del delitto di Perugia o dell’ultimo film di Boldi o dell'ultima dichiarazione di Berlusconi. Puoi restare dieci giorni davanti al televisore, guardare tutti i talk show, tutti i dibattiti politici, tutte le partite di calcio, e non allontanarti un istante dalla superficie. Puoi perfino andare in vacanza, in crociera, fare affari restando in superficie.

Eppure, è strano, gli uomini sono attratti dalla profondità. Quando i giovani dicono che vogliono provare delle emozioni violente, con la droga, l'alcol, il sesso sfrenato o correndo in automobile, o nelle prove no limits, cercano qualcosa che sta al di là. Non è detto che la trovino, forse la trovano per un istante e devono perciò ripetere l'esperienza estrema finché anche questa non si usura, non perde il suo potere.

Eppure tutti ogni tanto siamo condotti sull'abisso della profondità quando qualcosa scuote i fondamenti della nostra esistenza. Quando siamo impegnati in una lotta disperata per ottenere un risultato, e ci riusciamo. E proviamo un senso di immensa esultanza, il momento di «gloria» che potremo ricordare. Oppure, sul versante negativo quando muore una persona che ci è cara o ci ammaliamo di una malattia che potrebbe essere mortale e riguardiamo con occhi diversi tutti i nostri rapporti, tutta la nostra vita. E distinguiamo ciò che non è essenziale da ciò che è essenziale, la superficie dalla profondità. E capiamo che la profondità è il sacro. E lo incontriamo quando ci innamoriamo, e il nostro animo si dilata, diventa capace di emozioni e di pensieri tanto più grandi di noi stessi che vorremmo abbracciare il mondo e fonderci con esso.

Ma c'è un’altra strada verso la profondità: l'arte, la grandissima arte. Ci sono dei libri, dei romanzi, dei film, dei brani musicali, talvolta delle opere di pensiero, che invadono il nostro spirito e sembrano sul punto di farlo esplodere tanto ci apriamo al mondo, agli altri, a noi stessi. E vediamo qualcosa della nostra essenza e di cosa potremmo essere. Allora il nostro abituale modo di vivere ci sembra un vestito vecchio, abbandonato in un angolo della stanza. Francesco Alberoni

venerdì 7 marzo 2008

Haikulatorias


El mes pasado estuve unos días en Madrid, y una mañana, aprovechando un rato que me quedó libre, fui a ver una exposición instalada en un viejo palacio, cerca de la calle Princesa: una exposición sobre Ernestina de Champourcin. El momento ha sido inmortalizado por Javier Cotelo, caricaturista siempre atento a las palpitaciones de los tiempos.

Ernestina de Champourcin murió en 1999, como su viejo amigo Rafael Alberti: son los últimos poetas de la generación del 27. Leal a la legitimidad republicana, después de la guerra había marchado a México, donde sobreviviría haciendo traducciones para el Fondo de Cultura Económica. Se había casado en 1936 con Juan José Domenchina (1898-1959), también poeta y, además, secretario de Azaña. Mujer independiente, era a la vez una católica devota, de misa diaria, afiliada al Opus Dei y catequista en su parroquia.

La poesía amorosa y la religiosa son sus dos grandes canteras. Antes de la guerra prevalece la primera; después, la segunda. Desde los años setenta, ya de vuelta en España, su poesía se torna predominantemente evocativa. Según Rosa Fernández Urtasun, comisaria de la exposición, la poesía religiosa le valió el ostracismo por parte de la crítica. Puede ser. Ciertamente, Vicente Gaos no la incluyó, en 1965, en su Antología del grupo poético de 1927. En cambio sí había figurado, en 1934, en Poesía española, la antología editada por Gerardo Diego.

A la vuelta de Madrid he buscado en casa Poesía a través del tiempo (Anthropos, 1991), que recoge prácticamente toda su lírica: me sonaba que lo teníamos, y en efecto lo tenemos, aunque encontrarlo no ha sido fácil, porque en casa hay cierto caos en materia de libros.

Hai-kais espirituales (1967) no es su mejor poemario, pero tengo debilidad por él. En parte, por devoción al haiku, ese concentrado de poesía típico japonés. Una devoción con origen en un libro altamente recomendable editado por Irene Iarocci: Cento Haiku.

Pero hay más. Un haiku espiritual es, de hecho, esa minioración que en cristiano se llama jaculatoria (de iaculum, dardo o flecha): dardo de oro de la mente dirigido al corazón mismo de la luz, como la define Cristina Campo en uno de sus ensayos de Sotto falso nome. Y decir jaculatorias mientras se lee poesía... es algo más que matar dos pájaros de un tiro.

Por cierto, ahí va un haiku con pájaro:

¿Si pudiera explicarles por qué tanta alegría?
El pájaro no explica
y la rosa tampoco.

Y ahí otros dos que remiten al misterioso comercio de la autora con Dios en el fondo de su alma:

Dije que sí. ¿Y después?
Pusiste la semilla;
no la abandones ya hasta que cuaje en trigo.

Eres igual que el sol. De pronto te ocultaste,
y ahora cierro los ojos,
prolongando en mi noche la gloria vislumbrada.

Termino con un haiku de ambiente popular mexicano:

Un santo de escayola.
Una vieja enlutada y unos cirios que tiemblan...
¡Date a su afán, Señor! Así aprendió a buscarte.