
I luoghi del romanzo di Hawthorne sono i luoghi della Roma eterna, molto familiari anche adesso per chi vive a Roma: Villa Borghese, la chiesa dei Cappuccini di via Veneto, la Torre della Scimmia… Tutto in visione americana, ovviamente. Una visione che non è che mi entusiasmi. Per carità, è simpatico vedere un americano, o comunque un turista (Hawthorne, che ha vissuto in Italia due anni, è stato qualcosa di più di un turista), proiettare i suoi tic mentali sulla millenaria scenografia romana. Ma tante volte lo stereotipo, soprattutto quando nasce dalla chiusura allo sforzo di comprensione, è altezzoso e belligerante. E ciò purtroppo si verifica nel romanzo di Hawthorne, che, pur tra tanti attestati di meraviglia, non risparmia i toni spregiativi sia nei confronti dell’Italia che della Chiesa di Roma.
Un inciso. Per un’ironia della sorte, quel puritano antipapista di Hawthorne, critico con la Chiesa cattolica e implacabile in particolare con gli ordini religiosi, ha avuto una figlia che si è convertita al cattolicesimo e, dopo la morte del marito, ha fondato un ordine religioso: Rose Hawthorne. Insomma, come se una figlia di Dan Brown diventasse adesso numeraria dell’Opus Dei.
Torno alla Roma turistica e finisco. Alcuni dicono che Roma non è una città per viverci, e naturalmente a suo tempo Hawthorne è stato di questi. Io ci sono arrivato più di vent’anni fa e non me ne sono andato: ovviamente mi è piaciuta. Infatti, sento di vivere in una città eterna, malgrado i turisti, ma non noiosa (anche grazie ai turisti).
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