La trayectoria literaria de Joseph Roth (1894-1939) tiene dos grandes etapas: la izquierdista de los años veinte y la conservadora de los treinta. En el paso de la primera a la segunda hay un punto de inflexión decisivo del que Las ciudades blancas es una crónica directa, día a día: el viaje que hizo Roth a Francia en 1925.
En Francia, Roth descubre lo que llama “la infancia de Europa”, una verdad de inocencia en la que es obligado reconocerse. “Desearía que el hombre nuevo”, escribe, “el próximo y el subsiguiente, el hombre de todas las formas por las que hemos de pasar y en las que tenemos que cambiarnos todavía, mantuviera el nexo con la infancia de Europa y con la suya propia o que la reencontrara como yo. En algún sitio debe de existir, creo yo, una zona protegida, en la que lo nuevo puede penetrar sin previa destrucción, deponiendo las armas e izando la bandera blanca de la paz”.
No es, por tanto, el desencanto de las expectativas juveniles lo que motiva el cambio ideológico de Roth, sino, al revés, la fascinación suscitada por un nuevo descubrimiento. Años más tarde, tras el ascenso de Hitler al poder, Roth tendrá que abandonar Berlín, y no sin motivo marchará a París; y allí morirá.
En el viaje de 1925, sin embargo, Roth visita sólo la cuenca del Ródano, de Lyon a Marsella: los nueve capítulos de Las ciudades blancas se titulan “Lyon”, “Vienne”, “Tournon”, “Aviñón”, “Les Baux”, “Nimes y Arles”, “Tarascón y Beaucaire”, “Marsella” y, como epílogo, “La gente”. En aquel paisaje provenzal encuentra Roth, sobre todo, un gran respeto por la historia: “Los niños de este país perciben que hemos de ser la continuación de los antecesores para no perdernos. Han sumergido la juventud en la historia. Empapados de la conciencia cultural de los tiempos pasados, afrontan críticos y en guardia las novedades. Nada puede asustarlos como a nosotros. A nosotros, cualquier noticia del periódico nos desequilibra. Hasta la guerra mundial pasó por este país sin dejar más rastro que el luto y las lágrimas. A nosotros, en cambio, nos infligió el caos”.
¿Es esto conservadurismo? Quizá sí, pero sólo en estado germinal. De hecho, las novelas del Roth nostálgico y legitimista todavía tardarán en aparecer. La primera, La marcha Radetzki, es de 1932.
Además, en un sentido al menos el Roth de Las ciudades blancas claramente no es conservador: en el sentido taurino. A su paso por Nimes, donde hay una plaza de toros, Roth deja escapar una rara manifestación de disgusto: “Ningún poeta de este país tiene nada que objetar a las corridas de toros. Muchos las glorifican. No puedo comprender que existan un patriotismo o un genio incapaces de ver que se trata de una bestialidad”.
Las ciudades blancas es un libro breve y cómodo de leer. Fue publicado en el año 2000, en tamaño agenda, por la Editorial Minúscula S.L., Sociedad unipersonal (sic).
domenica 29 maggio 2011
domenica 15 maggio 2011
Chesterton e l'arte della vita domestica
Vede la luce finalmente in italiano, dalle edizioni Lindau, Ciò che non va nel mondo, di Chesterton, libro scintillante che, sul filo della polemica con il pensiero dominante al tempo della sua stesura (1910), apre potenti squarci di luce al di sopra della controversia spicciola. Peccato che su alcuni temi contingenti si incagli talvolta in criteri e valutazioni che la storia ha poi sepolto definitivamente.
Oggi è irricevibile, per esempio, la sua opposizione al suffragio femminile. E pochi accetteranno che esistano realmente, come sostiene Chesterton, certe “suddivisioni naturali del lavoro” (la donna in casa, l’uomo fuori) da rispettare assolutamente se si vuole preservare l’istituzione familiare. Ma non è facile dargli torto quando, portato più dall’ammirazione che dall’insensibilità, afferma che esonerare la donna dalle responsabilità domestiche comporterebbe un impoverimento per l’umanità. “Non sprecherò la mia intelligenza”, scrive, “cercando di inventare mezzi per far disimparare al genere umano come si suona il violino o come si sta in sella a un cavallo, e l’arte della vita domestica mi sembra speciale e preziosa quanto tutte le antiche arti della nostra razza”.
Sia chiaro, Chesterton non è un reazionario. Più critico con i tories che con i laburisti, parla spesso con simpatia della rivoluzione francese, che sarebbe stata, secondo lui, un sogno non fallito ma soltanto non realizzato. Come il cristianesimo, dice, che la gente abbandona per nuovi ideali senza in realtà averlo conosciuto o provato.
Il titolo del libro prende spunto dalla constatazione di questa fuga dalla ricerca del vero. Ciò che non va nel mondo, leggiamo nelle pagine iniziali, ciò che è sbagliato, è che non ci domandiamo che cosa sia giusto. E che cosa sia giusto lo rivela Chesterton alla fine, in implicita allusione alla bellezza che salva il mondo (Dostoevskij), prendendo come pietra di paragone eterna e universale una delle tante cose sacrificate sugli altari moderni (l’altare del femminismo, del pedagogismo, dell’imperialismo...): i capelli di una bambina, che l’igiene ufficiale taglia per via dei pidocchi, contro l’orgoglio naturale delle buone madri per la bellezza delle figlie.
È da qui che parte la battaglia di Chesterton. “Poiché una fanciulla dovrebbe avere lunghi capelli, dovrebbe avere capelli puliti; poiché dovrebbe avere capelli puliti, non dovrebbe vivere in una casa sporca; poiché non dovrebbe avere una casa sporca, dovrebbe avere una madre libera e con molto tempo a disposizione; poiché dovrebbe avere una madre libera, non dovrebbe avere un padrone di casa strozzino; poiché non dovrebbe avere un padrone strozzino, dovrebbe esserci una ridistribuzione della proprietà e poiché dovrebbe essere una ridistribuzione della proprietà, ci dovrà essere una rivoluzione”.
Sì, alla fine arriviamo alla rivoluzione. Chesterton parla, naturalmente, della rivoluzione distributista, dal nome di quella dottrina, da lui sostenuta, mirante alla distribuzione della proprietà nel modo più ampio possibile fra la popolazione. Perché solo l’uomo con casa propria, dice Chesterton, può realizzarsi veramente come uomo. E sono parole che mostrano che quell’arte della vita domestica da lui glorificata è molto di più di una trovata zuccherosa.
Oggi è irricevibile, per esempio, la sua opposizione al suffragio femminile. E pochi accetteranno che esistano realmente, come sostiene Chesterton, certe “suddivisioni naturali del lavoro” (la donna in casa, l’uomo fuori) da rispettare assolutamente se si vuole preservare l’istituzione familiare. Ma non è facile dargli torto quando, portato più dall’ammirazione che dall’insensibilità, afferma che esonerare la donna dalle responsabilità domestiche comporterebbe un impoverimento per l’umanità. “Non sprecherò la mia intelligenza”, scrive, “cercando di inventare mezzi per far disimparare al genere umano come si suona il violino o come si sta in sella a un cavallo, e l’arte della vita domestica mi sembra speciale e preziosa quanto tutte le antiche arti della nostra razza”.
Sia chiaro, Chesterton non è un reazionario. Più critico con i tories che con i laburisti, parla spesso con simpatia della rivoluzione francese, che sarebbe stata, secondo lui, un sogno non fallito ma soltanto non realizzato. Come il cristianesimo, dice, che la gente abbandona per nuovi ideali senza in realtà averlo conosciuto o provato.
Il titolo del libro prende spunto dalla constatazione di questa fuga dalla ricerca del vero. Ciò che non va nel mondo, leggiamo nelle pagine iniziali, ciò che è sbagliato, è che non ci domandiamo che cosa sia giusto. E che cosa sia giusto lo rivela Chesterton alla fine, in implicita allusione alla bellezza che salva il mondo (Dostoevskij), prendendo come pietra di paragone eterna e universale una delle tante cose sacrificate sugli altari moderni (l’altare del femminismo, del pedagogismo, dell’imperialismo...): i capelli di una bambina, che l’igiene ufficiale taglia per via dei pidocchi, contro l’orgoglio naturale delle buone madri per la bellezza delle figlie.
È da qui che parte la battaglia di Chesterton. “Poiché una fanciulla dovrebbe avere lunghi capelli, dovrebbe avere capelli puliti; poiché dovrebbe avere capelli puliti, non dovrebbe vivere in una casa sporca; poiché non dovrebbe avere una casa sporca, dovrebbe avere una madre libera e con molto tempo a disposizione; poiché dovrebbe avere una madre libera, non dovrebbe avere un padrone di casa strozzino; poiché non dovrebbe avere un padrone strozzino, dovrebbe esserci una ridistribuzione della proprietà e poiché dovrebbe essere una ridistribuzione della proprietà, ci dovrà essere una rivoluzione”.
Sì, alla fine arriviamo alla rivoluzione. Chesterton parla, naturalmente, della rivoluzione distributista, dal nome di quella dottrina, da lui sostenuta, mirante alla distribuzione della proprietà nel modo più ampio possibile fra la popolazione. Perché solo l’uomo con casa propria, dice Chesterton, può realizzarsi veramente come uomo. E sono parole che mostrano che quell’arte della vita domestica da lui glorificata è molto di più di una trovata zuccherosa.
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