
Ho osservato che a Grazia Deledda piace inserire le pietre erette dall’uomo, e soprattutto le chiese, in continuità con il paesaggio rurale, come a significare la particolare comunione che esiste tra la civiltà contadina e la creazione. Penso che sia il suo modo di rendere presente tra gli uomini la divinità e eterni i monumenti ad essa innalzati. Anche La via del male offre qualche esempio di questo accoppiamento chiesa-natura: “Il più delle volte pranzavano all’aperto, sotto una quercia, e dopo il pasto i due sposi vagavano per la tanca, visitavano gli ovili vicini, talvolta si spingevano fino alla chiesetta dello Spirito Santo, solitaria e nera come una roccia tra il verde dei campi silenziosi” (p. 157).
Bucolico, non è vero? Eppure la tragedia è in agguato, l’efferatezza dell’uomo sta per misurarsi con l’ordine di Dio. No, non ci troviamo in una novella sentimentale. Anzi, niente più lontano da questo romanzo che il sentimentalismo, perché qui siamo in campagna e quindi tutto è vero: l’amore è verità, la passione è verità, il male è verità, la coscienza è verità.
Bernanos ha detto, mi sembra (o forse Péguy?), che la scomparsa della civiltà contadina è la grande tragedia del mondo contemporaneo: una tragedia che secondo lui sarebbe paragonabile alla crocifissione di Cristo, soltanto che la civiltà contadina non ha voce per lamentarsi, per gridare al cielo, a squarciagola: “Dio mio!, perché mi hai abbandonato?”. Dopo la lettura del romanzo della Deledda, capisco un po’ meglio il senso della frase.
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