Con metáfora en mi opinión no brillantísima, Sandor Marai compara su condición de exiliado desde 1948 con la de Rodrigo de Triana en el momento en que divisa las costas de las Indias. De ahí el título ¡Tierra, tierra! del segundo volumen de sus memorias (1944-1948), que termina con su salida de Hungría.
Me habían hablado muy bien del libro (Salamandra, 2006), pero me ha decepcionado un poco. Encuentro, por parte de Marai, mucho discurso pretencioso sobre su propio ánimo y muy poca sustancia narrativa, muy pocos hechos.
Lo que peor sabor de boca me ha dejado es una idea que aparece en cierto momento, a propósito del establecimiento del comunismo en Hungría: Fulano, Mengano, etc., se han suicidado o han intentado hacerlo, luego el comunismo es malo. No digo que una y otra cosa no tengan nada que ver (aunque se puede decir de modo más sazonado: véase la película La vida de los otros, por ejemplo), ni que el comunismo sea bueno. Pero es que el suicidio es peor. Por lo demás, el propio Marai, cuarenta años después de abandonar Hungría y marchar a Estados Unidos, también se ha suicidado, y yo no deduzco de eso que la democracia americana sea mala.
El suicidio es una cosa demasiado seria para hacer de él un instrumento de disputa política. El suicida es siempre un insensato, pero en su insensatez desafía cosas muy serias, mucho más serias que un sistema político. Para empezar, desafía en su raíz el mandato bíblico de amar al prójimo como a uno mismo: porque, según ese mandato, nada me impediría matar al prójimo, si para mí quiero la muerte. Qué decir de ese frágil castillo de naipes que es el imperativo categórico de Kant.
No voy a seguir por ahí, porque yo de estas cosas de razón práctica entiendo poco. Me quedo tranquilo pensando que, en el paso del Antiguo al Nuevo Testamento, el “mandamiento nuevo” de Jesucristo habla no ya de amar al prójimo como a uno mismo, sino como él (Jesús) nos ha amado. Pero no deja de inquietarme la realidad del suicidio, que dicen que en algunos países es la primera causa de muerte entre los jóvenes.
domenica 30 gennaio 2011
sabato 15 gennaio 2011
La civiltà contadina rivisitata
Come tutti i romanzi di Grazia Deledda (1871-1936), La via del male, di cui c’è in libreria una nuova edizione (Bel Ami, 2010), ha il potere di suggestione di quella letteratura del vero che ci ha tramandato i tratti profondi di una certa società contadina che fu e che non tornerà più. Il servo che dorme in cucina, sul pavimento; la padrona che si aggira scalza per la casa e bada in prima linea alle faccende domestiche; il vecchio padrone ozioso e amorale. E, al disopra di tanta figura squallida, un Dio solidamente presente e, nei suoi confronti, tanto di verità da accettare, riti da osservare, voti da sciogliere e peccati da espiare.
Ho osservato che a Grazia Deledda piace inserire le pietre erette dall’uomo, e soprattutto le chiese, in continuità con il paesaggio rurale, come a significare la particolare comunione che esiste tra la civiltà contadina e la creazione. Penso che sia il suo modo di rendere presente tra gli uomini la divinità e eterni i monumenti ad essa innalzati. Anche La via del male offre qualche esempio di questo accoppiamento chiesa-natura: “Il più delle volte pranzavano all’aperto, sotto una quercia, e dopo il pasto i due sposi vagavano per la tanca, visitavano gli ovili vicini, talvolta si spingevano fino alla chiesetta dello Spirito Santo, solitaria e nera come una roccia tra il verde dei campi silenziosi” (p. 157).
Bucolico, non è vero? Eppure la tragedia è in agguato, l’efferatezza dell’uomo sta per misurarsi con l’ordine di Dio. No, non ci troviamo in una novella sentimentale. Anzi, niente più lontano da questo romanzo che il sentimentalismo, perché qui siamo in campagna e quindi tutto è vero: l’amore è verità, la passione è verità, il male è verità, la coscienza è verità.
Bernanos ha detto, mi sembra (o forse Péguy?), che la scomparsa della civiltà contadina è la grande tragedia del mondo contemporaneo: una tragedia che secondo lui sarebbe paragonabile alla crocifissione di Cristo, soltanto che la civiltà contadina non ha voce per lamentarsi, per gridare al cielo, a squarciagola: “Dio mio!, perché mi hai abbandonato?”. Dopo la lettura del romanzo della Deledda, capisco un po’ meglio il senso della frase.
Ho osservato che a Grazia Deledda piace inserire le pietre erette dall’uomo, e soprattutto le chiese, in continuità con il paesaggio rurale, come a significare la particolare comunione che esiste tra la civiltà contadina e la creazione. Penso che sia il suo modo di rendere presente tra gli uomini la divinità e eterni i monumenti ad essa innalzati. Anche La via del male offre qualche esempio di questo accoppiamento chiesa-natura: “Il più delle volte pranzavano all’aperto, sotto una quercia, e dopo il pasto i due sposi vagavano per la tanca, visitavano gli ovili vicini, talvolta si spingevano fino alla chiesetta dello Spirito Santo, solitaria e nera come una roccia tra il verde dei campi silenziosi” (p. 157).
Bucolico, non è vero? Eppure la tragedia è in agguato, l’efferatezza dell’uomo sta per misurarsi con l’ordine di Dio. No, non ci troviamo in una novella sentimentale. Anzi, niente più lontano da questo romanzo che il sentimentalismo, perché qui siamo in campagna e quindi tutto è vero: l’amore è verità, la passione è verità, il male è verità, la coscienza è verità.
Bernanos ha detto, mi sembra (o forse Péguy?), che la scomparsa della civiltà contadina è la grande tragedia del mondo contemporaneo: una tragedia che secondo lui sarebbe paragonabile alla crocifissione di Cristo, soltanto che la civiltà contadina non ha voce per lamentarsi, per gridare al cielo, a squarciagola: “Dio mio!, perché mi hai abbandonato?”. Dopo la lettura del romanzo della Deledda, capisco un po’ meglio il senso della frase.
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