Prima della biografia di Edith Stein avevo letto quella di un’altra ebrea, convertita pure al cristianesimo e finita pure ad Auschwitz: Irène Némirovsky (1903-1942), grande scrittrice francese, anche se russa di nascita, e donna, a mio avviso, di grandi qualità morali, tanto per smentire il topico della sregolatezza del genio.
La vita di Irène Némirovsky, di Olivier Philipponat e Patrick Lienhardt (Adelphi, 2009) è una buona biografia, alla misura del personaggio. Peccato che talvolta sia appesantita dalla troppa foga con cui combatte certi pregiudizi dell’epoca.
Comunque, devo dire che il tema della conversione, che per il momento in cui avviene è necessariamente polemico (Irène e i suoi —marito e due figlie— ricevono il battesimo nel febbraio 1939), è trattato in modo serio.
“Sa benissimo che niente, nemmeno l’acqua battesimale, potrà lavarle il sangue. «Allora, perché?» le chiede Cécile. «Perché avete cambiato religione, voi che siete migliore di tanti cattolici?»”. Cécile è Cécile Michaud, la bambinaia delle figlie, una donna in cui Irène ripone totale, meritata fiducia; una donna che con questa frase si è guadagnata anche la mia simpatia di lettore cattolico.
Philipponat e Lienhardt sostengono che, in realtà, un atteggiamento di fronte alla Chiesa come quello della Némirovsky era allora un fenomeno non raro tra gli intellettuali ebrei, e fanno l’esempio del filosofo Henri Bergson. Nel suo testamento, datato 1937, quattro anni prima della morte, Bergson aveva confessato di essere giunto alla conclusione che il cristianesimo fosse la compiuta realizzazione dell’ebraismo, anche se per solidarietà con il suo popolo, in quel momento di antisemitismo in piena, non voleva ricevere il battesimo.
La posizione di Bergson è nobile quanto quella della scrittrice. E il fatto che lui sia deceduto a Parigi di morte naturale e lei invece ad Auschwitz è soltanto uno scherzo del destino.
Perché, allora? Philipponat e Lienhardt parlano di alcuni sacerdoti che sono stati decisivi nella sua conversione: soprattutto Roger Bréchard, che morirà eroicamente in guerra e ispirerà il personaggio più positivo di Suite francese, il padre Péricand; poi Georges Chevrot, parroco di Saint-François-Xavier; infine, il rumeno Vladimir Ghika, compagno dei Maritain nell’impegno di catechizzare il milieu culturale francese e futuro martire del comunismo.
La produzione degli ultimi anni di Irène, quella rimasta in buona parte inedita fino a pochi anni fa e a cui deve, in sostanza, il suo attuale revival, prende avvio da una frase sentita a Chevrot in una messa domenicale nel settembre 1939, appena cominciata la guerra: “Come siamo piccoli, fratelli, e come siamo grandi”.
La Francia in guerra che procede in misera parata sulle pagine di Suite francese è fatta di gente piccola, meschina. Ma in quelle anime c’è qualcosa di grande..., se grande significa tragico, naturalmente.
Grande è stato, per esempio, il destino non solo di Irène Némirovsky, ma anche del marito, quell’oscuro Michel Epstein che, dopo l’arresto della moglie, si è esposto inutilmente per cercare di salvarla, senza altro risultato che quello di essere anche lui deportato ad Auschwitz e lì fatto morire.
venerdì 30 aprile 2010
venerdì 16 aprile 2010
Destinazione Auschwitz
Francesco Salvarani, sacerdote ultraottantenne, ha pubblicato il suo primo libro: Edith Stein (Ares, 2009). Tanto per cominciare, complimenti all’autore per questa opera prima. E prendo atto che non è mai tardi per esordire.
Complimenti perché, pur essendo chiaro che Salvarani non è un biografo navigato, il libro è ben documentato e di lettura piacevole, addirittura eccitante.
Fa impressione, per esempio, il momento dell’arresto. “Suor Stein deve uscire adesso. Può cambiarsi l’abito o uscire così com’è. Le dia una coperta, un bicchiere, un cucchiaio e cibarie per tre giorni”: queste le spiegazioni date dall’ufficiale della Gestapo alla priora del Carmelo di Echt (Olanda). Qui la Stein era giunta, da Colonia, nel 1938. La priora riesce soltanto ad allungare da cinque a dieci minuti il tempo concesso a Edith e alla sorella Rose per uscire. È il 2 agosto 1942. Il 9, appena arrivate ad Auschwitz, sono mandate alla camera a gas.
Un’altra impressione forte: la piena dell’angoscia nella primavera della vita. Brillante studentessa a Gottinga, Edith riesce ad accedere, appena ventenne, all’olimpo della fenomenologia, a diretto contatto con Husserl. Eppure in quegli anni, tra il 1913 e il 1914, subisce una crisi esistenziale che la porta a pensare al suicidio come una possibilità molto concreta.
Da questa situazione di buio la tirerà fuori l’impegno come crocerossina durante la grande guerra, un impegno a cui si è votata con una dedizione che ha sorpreso a lei stessa. La conversione al cattolicesimo avverrà parecchi anni dopo, nel 1922.
Sono stato una volta a Münster e mi hanno fatto vedere, nella chiesa di San Ludgerus, un grande crocifisso che i bombardamenti del 1944 hanno lasciato senza braccia. “Non ho altre mani che le vostre”, è scritto adesso sopra quel crocifisso mutilato. Fu pregando davanti a quella croce che Edith decise di farsi suora, nel 1933. Salvarani parla, a questo punto, di San Ludgerus, ma non del crocifisso, anche se sottolinea che nel nome di religione da lei scelto, Teresa Benedetta della Croce, in latino “Theresia Benedicta a Cruce”, c’era la consapevolezza di essere stata “benedetta dalla croce”.
Pochi giorni prima, sempre nel 1933, si era rivolta a Pio XI per chiedergli una netta condanna del nazismo. La lettera, custodita nell’archivio segreto vaticano, è stata resa nota soltanto nel 2003. “Solo nel mio àmbito privato sono venuta a conoscenza di ben cinque casi di suicidio a causa di persecuzione”, scrive la Stein, ricordando senz’altro la sua terribile angoscia giovanile. Il Papa scriverà quattro anni dopo l’enciclica Mit brennender Sorge.
Ma non saranno le condanne della Chiesa a salvare gli ebrei. Anzi, in Olanda i cattolici di origine ebraica, come appunto la Stein, sono stati presi di mira dopo che i vescovi hanno denunciato le deportazioni di ebrei non battezzati, che i nazisti volevano restassero nascoste.
Flannery O’Connor riteneva Simone Weil e Edith Stein le due donne più interessanti del Ventesimo secolo. Simone è stata invitata più volte in questo libro-forum. Era giusto, mi sembra, aprirne le porte anche a Edith.
Complimenti perché, pur essendo chiaro che Salvarani non è un biografo navigato, il libro è ben documentato e di lettura piacevole, addirittura eccitante.
Fa impressione, per esempio, il momento dell’arresto. “Suor Stein deve uscire adesso. Può cambiarsi l’abito o uscire così com’è. Le dia una coperta, un bicchiere, un cucchiaio e cibarie per tre giorni”: queste le spiegazioni date dall’ufficiale della Gestapo alla priora del Carmelo di Echt (Olanda). Qui la Stein era giunta, da Colonia, nel 1938. La priora riesce soltanto ad allungare da cinque a dieci minuti il tempo concesso a Edith e alla sorella Rose per uscire. È il 2 agosto 1942. Il 9, appena arrivate ad Auschwitz, sono mandate alla camera a gas.
Un’altra impressione forte: la piena dell’angoscia nella primavera della vita. Brillante studentessa a Gottinga, Edith riesce ad accedere, appena ventenne, all’olimpo della fenomenologia, a diretto contatto con Husserl. Eppure in quegli anni, tra il 1913 e il 1914, subisce una crisi esistenziale che la porta a pensare al suicidio come una possibilità molto concreta.
Da questa situazione di buio la tirerà fuori l’impegno come crocerossina durante la grande guerra, un impegno a cui si è votata con una dedizione che ha sorpreso a lei stessa. La conversione al cattolicesimo avverrà parecchi anni dopo, nel 1922.
Sono stato una volta a Münster e mi hanno fatto vedere, nella chiesa di San Ludgerus, un grande crocifisso che i bombardamenti del 1944 hanno lasciato senza braccia. “Non ho altre mani che le vostre”, è scritto adesso sopra quel crocifisso mutilato. Fu pregando davanti a quella croce che Edith decise di farsi suora, nel 1933. Salvarani parla, a questo punto, di San Ludgerus, ma non del crocifisso, anche se sottolinea che nel nome di religione da lei scelto, Teresa Benedetta della Croce, in latino “Theresia Benedicta a Cruce”, c’era la consapevolezza di essere stata “benedetta dalla croce”.
Pochi giorni prima, sempre nel 1933, si era rivolta a Pio XI per chiedergli una netta condanna del nazismo. La lettera, custodita nell’archivio segreto vaticano, è stata resa nota soltanto nel 2003. “Solo nel mio àmbito privato sono venuta a conoscenza di ben cinque casi di suicidio a causa di persecuzione”, scrive la Stein, ricordando senz’altro la sua terribile angoscia giovanile. Il Papa scriverà quattro anni dopo l’enciclica Mit brennender Sorge.
Ma non saranno le condanne della Chiesa a salvare gli ebrei. Anzi, in Olanda i cattolici di origine ebraica, come appunto la Stein, sono stati presi di mira dopo che i vescovi hanno denunciato le deportazioni di ebrei non battezzati, che i nazisti volevano restassero nascoste.
Flannery O’Connor riteneva Simone Weil e Edith Stein le due donne più interessanti del Ventesimo secolo. Simone è stata invitata più volte in questo libro-forum. Era giusto, mi sembra, aprirne le porte anche a Edith.
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