“Better pass boldly into that other world, in the full glory of some passion, than fade and wither dismally with age”. Es una de las citas más socorridas de la literatura del siglo XX: de Los muertos, el cuento más famoso de Joyce y el último del volumen Dublineses. En la traducción de Cabrera Infante: “Mejor pasar audaz al otro mundo en el apogeo de una pasión que marchitarse consumido funestamente por la vida”.
Ayer fue la misa de trigésimo de mi hermana Inés. Tras un año de lucha a brazo partido, un cáncer insidioso pero aparentemente no indomable (sólo la última semana la tuvo hospitalizada) se la llevó el 30 de junio. Tenía 44 años.
Curioso cómo ahora, viendo las cosas a posteriori, te das cuenta de que en el fondo te estabas preparando para esto. “No tiene buena pinta”, “hay que rezar”...: frases de este tipo nos intercambiábamos entre padres e hijos, entre hermanos, entre parientes, entre amigos, a pesar del optimismo en que iban envueltas siempre las noticias.
“Quizá sea la última vez que la vea”, le dije a Isa hace unos meses, poco antes de un breve viaje a Madrid. “¡No!, ¡qué dices!”, me respondió. Bueno, pues sí, fue la última vez que la vi con vida.
Se veía venir. Otra cosa es que no quisiéramos mirar. Se veía venir, y sin embargo el zarpazo de la ausencia duele.
Ha cambiado de casa, me ha dicho Enrico, un amigo. Ya. “Decía un alma ambiciosa de Dios: ¡por fortuna, los hombres no somos eternos!”. Son unas palabras de Josemaría Escrivá de Balaguer que seguramente consideró más de una vez en sus últimos días de vida (en ella el Opus Dei era parte sustancial de esa “passion in its full glory” que en cristiano se llama vocación).
Ha cambiado de casa... Bien, y yo en esa nueva casa, ¿quién soy para ella? ¿Qué estará contando de mí?, me pregunto. ¿Se acuerda de cuando le hice ir de una punta a otra de Madrid (ella vivía en Madrid) para recoger un papel absurdo, o bien de cuando, siendo niños, le ayudé a salir de una acequia en la que se había caído? Calculadora como era (en la universidad se había especializado en cálculo automático, y en eso trabajaba), seguro que ha sacado mi saldo.
Me da no sé qué mezclar su recuerdo con el de Joyce, pero he de reconocer que en esa frase de Los muertos hay una gran verdad que tiene que ver con ella.
venerdì 31 luglio 2009
venerdì 17 luglio 2009
Un oracolo italoamericano
Ok, allora riprendo. Potete annunciarlo, se volete: potete dire “a grande richiesta, alf torna sul web”, o qualcosa di simile, come negli spettacoli teatrali. Solo che non è vero, perché la richiesta non è stata grande.
È stata piuttosto ridotta, ma le persone che l’hanno sostenuta sono di quelle a cui non saprei dire di no, e quindi almeno per ora mi devo piegare al loro volere. Mi concedono comunque di spaziare di più i post, e lo farò, perché per me la cadenza settimanale è troppo impegnativa: ho parecchio da fare.
Oggi parlo di musica. Ecco qua, nella foto, una delle mie cantanti preferite, Natalie Merchant. Americana di origine italiano (aver anglicizzato il suo cognome, Mercante, è per ora l’unico difetto che le riconosco), ha cantato negli anni ottanta nei 10000 Maniacs per poi mettersi in proprio.
Retrospective (1995-2005) è una antologia del suo percorso in solitario. Not In This Life, Break Your Heart e Owensboro (le due prime scritte da lei, la terza arrangiata a partire da un brano tradizionale) sono le canzoni che mi sono piaciute di più.
La sua voce ha un timbro metallico tanto dolce quanto fermo, e chi, come me, ha una vocina asfittica non può che invidiarla.
Simone Weil ha un testo molto suggestivo sul potere della parola, tradizionalmente rimasto, in tutte le culture, in mano alla classe sacerdotale. Infatti nel nostro immaginario una voce come quella di Natalie Merchant diventa oracolo, appare come una sorta di leva di controllo di un certo ambito di verità vietato ad altri. E mi sa che Natalie Merchant, per l’energia e la convinzione con cui interpreta le sue canzoni, ne è consapevole.
È stata piuttosto ridotta, ma le persone che l’hanno sostenuta sono di quelle a cui non saprei dire di no, e quindi almeno per ora mi devo piegare al loro volere. Mi concedono comunque di spaziare di più i post, e lo farò, perché per me la cadenza settimanale è troppo impegnativa: ho parecchio da fare.
Oggi parlo di musica. Ecco qua, nella foto, una delle mie cantanti preferite, Natalie Merchant. Americana di origine italiano (aver anglicizzato il suo cognome, Mercante, è per ora l’unico difetto che le riconosco), ha cantato negli anni ottanta nei 10000 Maniacs per poi mettersi in proprio.
Retrospective (1995-2005) è una antologia del suo percorso in solitario. Not In This Life, Break Your Heart e Owensboro (le due prime scritte da lei, la terza arrangiata a partire da un brano tradizionale) sono le canzoni che mi sono piaciute di più.
La sua voce ha un timbro metallico tanto dolce quanto fermo, e chi, come me, ha una vocina asfittica non può che invidiarla.
Simone Weil ha un testo molto suggestivo sul potere della parola, tradizionalmente rimasto, in tutte le culture, in mano alla classe sacerdotale. Infatti nel nostro immaginario una voce come quella di Natalie Merchant diventa oracolo, appare come una sorta di leva di controllo di un certo ambito di verità vietato ad altri. E mi sa che Natalie Merchant, per l’energia e la convinzione con cui interpreta le sue canzoni, ne è consapevole.
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