Come
al solito, Simone Weil è affascinante. E come al solito, diciamolo pure, anche
Adelphi fa egregiamente la sua parte: lascia parlare l’autore, senza
introduzioni che possano condizionare la lettura, con soltanto, alla fine,
alcune note —senza rimandi nel testo, che sarebbero irrispettosi con l’autore—
e un commento firmato da un esperto (in questo caso, Giancarlo Gaeta) per chi,
una volta letto il libro, vuole chiarimenti e approfondimenti.
“In
ogni uomo vi è qualcosa di sacro. Ma non è la sua persona. E neppure la persona
umana. È semplicemente lui, quell’uomo”, scrive Simone Weil. Il sacro è, per
lei, il bello e il vero. Di fronte a ciò, la persona ha un’importanza
secondaria. E lo stesso vale per altri valori che riteniamo (erroneamente,
secondo lei) una sorta di fari intangibili della storia, come i diritti umani o
la democrazia. Persona, diritto, democrazia…, non vanno assolutizzati, dice la
Weil, sono concetti intermedi, si trovano a metà strada tra la forza bruta e il
sacro.
L’errore,
il peccato, appartengono alla persona. La perfezione invece è impersonale. C’è,
in queste idee di Simone Weil, il suo platonismo e il suo interesse per la
matematica. Ma c’è anche, molto forte, la sua spinta al misticismo: «tutti gli
sforzi dei mistici hanno sempre mirato che nella loro anima non vi fosse più
neppure una parte che dicesse “io”», tiene a ricordarci.
E
ciò richiama ancora la distinzione tra la parte nobile e la parte mediocre,
curvata su se stessa, dell’anima, un altro elemento fondante del sistema di
Simone Weil che puntualmente si fa vivo, con luminosa coerenza di pensiero,
anche qui.
È
una tesi, questa della persona come valore secondario nei confronti del sacro,
sulla quale non oserei pronunciarmi: non sono neanche sicuro che il concetto di
persona con il quale si confronta
Simone Weil trovi d’accordo tutti i pensatori che sulla persona hanno
scritto pagine rilevanti (Boezio, Maritain, Buber…). Eppure è una tesi
suggestiva. È senz’altro provocatoria, e non sempre le cose provocatorie sono
da diffidare.