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venerdì 31 agosto 2012

Thomas Mann in esilio

Correva l’anno 1933, e trovandosi in viaggio in Svizzera per un giro di conferenze, Mann ha saputo dell’avvento al potere di Hitler in Germania. A quel punto ha deciso di non tornare in patria. La decisione sarà revocata soltanto dopo la seconda guerra mondiale, e così Giuseppe in Egitto e Giuseppe il nutritore, parti terza e quarta di Giuseppe e i suoi fratelli, saranno scritte in esilio, tra la Svizzera e gli Stati Uniti.

Per la verità, anche le due prime parti, Le storie di Giacobbe e Il giovane Giuseppe, non ancora pubblicate all’inizio del 1933, si vedranno investite dalle circostanze politiche, ma grazie a Dio il pericolo peggiore, che era quello della distruzione, sarà evitato. La casa di Monaco di Thomas Mann è subito requisita dalla polizia, ma i manoscritti sono presto messi in salvo grazie al sangue freddo della figlia Erika, che effettua una audace incursione nella casa e li porta via. Saranno pubblicati negli anni 1933 e 1934.

Si può dire che a questo punto la biografia dello stesso Mann entra in sintonia con l’avventurosa vicenda del simpatico personaggio biblico: entrambi conoscono una sorta di discesa agli inferi. Infatti nelle prime pagine di Giuseppe in Egitto c’è un riferimento esplicito a questa situazione: come Giuseppe a un certo punto, dopo essere stato venduto dai fratelli, arriva in Egitto in esilio forzato, scrive Mann, così l’autore, proprio quando si avvia a raccontare quel momento della vita di Giuseppe, ha dovuto prendere la strada dell’esilio.

Ma Giuseppe, come sa chi ha letto la Bibbia, conoscerà ancora una seconda discesa agli inferi, per via del famoso incidente con la moglie di Potifar. È un fatto interessante, oltre la sua evidente morbosità. René Girard, per esempio, ha rilevato l’analogia tra Giuseppe e Edipo, riscontrabile pure, secondo lui, in altre figure mitiche di ambiti culturali molto diversi. Come il tragico personaggio greco, Giuseppe è innocente ma viene presentato —agli egiziani— come autore di un delitto sessuale che infrange le fondamenta dell’ordine sociale. Ma attenzione, dice Girard, in Giuseppe (e cioè nella Bibbia) c’è una specificità, c’è una differenza radicale con le storie di Edipo e consimili malcapitati: lui alla fine sfuggirà il destino, supererà la maledizione che la sua pseudo colpa gli impone.

Infatti, dopo questa seconda discesa agli abissi risalirà non già fino alla casa di Potifar, ma fino alla corte del faraone. La storia è conosciuta, o almeno dovrebbe esserlo. Comunque vale la pena di leggerla, sia nella Bibbia che nella versione di Thomas Mann, anche perché è proprio nel raccontare queste oscillazioni capricciose della fortuna dove l’arte letteraria di Mann, che non lascia niente al caso e tutto ordina con precisione e rigore, forse più alto vola.

venerdì 16 marzo 2012

Girard, Vattimo y el chivo expiatorio

Las ideas de René Girard quizá un día nos parecerán rancias. Yo, al menos, no tengo demasiada fe en su insuperabilidad. Pero mientras sigan en cartelera estoy contento, porque nos provocan en un tema, el del mito, que tendemos a considerar una categoría vencida por la historia pero que, como tan bien explica Roberto Calasso, no solo sigue ahí, sino que es nuestro talón de Aquiles.

Girard y Gianni Vattimo son coautores de ¿Verdad o fe débil? (Paidós, 2011), una recopilación de cinco textos de los últimos quince años: tres debates entre ambos y un artículo de cada uno. Paidós es la editorial que publica en España las obras de Vattimo, pero aquí el protagonista, quien impone la agenda, es Girard. De todos modos, Vattimo, en la polémica con Girard (polémica relativa, porque pretende estar de acuerdo con él), encuentra cauce ancho para desplegar sus tesis.

La idea fundamental de Girard es la del chivo expiatorio (Girard es antropólogo, no filósofo). Las sociedades, dice él, siempre se han compactado internamente por medio de la sublimación de la violencia innata de los individuos en un origen mítico colectivo en el que se sacrificó a una víctima teóricamente culpable de todos los males. En este sentido, la tradición judeocristiana resulta excepcional, pues en ella Dios ya no quiere sacrificios humanos (véase el caso de Abraham e Isaac), y la víctima sublime, Jesucristo, es inocente.

Para Vattimo, eso significa que la misión histórica del cristianismo es revelar la impostura de la religión, incluida, lógicamente, la de la propia religión cristiana. No es una crítica al cristianismo: al revés, Vattimo ensalza el mensaje cristiano de la caridad, tan opuesto al de los mitos precedentes, y llega a decir que Girard le ha hecho reconciliarse con su fe juvenil, aunque no tanto como para retomarla (“gracias a Dios, soy ateo”, dice filosóficamente).
¿Puedo decir lo que pienso? Yo veo que Vattimo ensancha demasiado el concepto de violencia. Para él, toda autoridad es violencia. No solo: la misma idea de ser es ya violenta, por lo que hay que cargársela. “Hay una efectiva reducción de la violencia a través de la reducción de la fuerza de nuestros argumentos con relación a los conceptos de naturaleza, ser, verdad, etc.”, dice. Y yo me acuerdo de aquello de Goebbels: “Pasaremos a la historia o como los mayores estadistas o como los mayores criminales de todos los tiempos”. Dependiendo de quién gane la guerra, se entiende: porque si el bien, el mal, la verdad, se aligeran, como pretende Vattimo, no sabemos adónde puede llevárselos el viento de la historia.

Girard, por su parte, no piensa que el cristianismo sea la religión de la disolución: él es optimista, piensa en el cristianismo como una fuerza eminentemente constructiva, con una gran tarea por delante (dos mil años de historia no son nada, dice). Eso sí, a diferencia de Vattimo él cree en Dios, en Jesucristo, en la Iglesia…, y en la misa como sacrificio.