venerdì 31 dicembre 2010

Che vogliamo fare della nostra società

Nei primi mesi del 1939, T.S. Eliot ha pronunciato alcune conferenze a Cambridge che, dopo una veloce rielaborazione, ha pubblicato, quello stesso anno, con il titolo L’idea di una società cristiana. Titolo iperpreciso: “società”, perché Eliot, lasciando da parte l’individuo, si sofferma soltanto sull’insieme della collettività; “cristiana”, perché ritiene eufemistico chiamare altrimenti (neutra, per esempio) una società che, se cristiana non fosse, potrebbe essere soltanto pagana; e in primo luogo “idea”, perché il libro ha per oggetto il cosa, non il come, cioè un certo modello di società cristiana, ma non i mezzi per raggiungerlo.

Ricordo, a questo punto, quella domanda che hanno fatto a Gandhi una volta, nel 1930, proprio in Inghilterra: “Che ne pensa della civiltà occidentale?” Gandhi ha risposto subito, ironicamente: “Sarebbe una buona idea”. È una battuta che forse andrebbe rivolta a Eliot, troppo idealistico, infatti, come dico, nella sua visione della società cristiana.

Comunque Eliot, mentre lavora, nel 1939, alla stesura del suo programma di società cristiana, non sta pensando a Gandhi, ma piuttosto a Hitler. Pochi mesi prima, nella conferenza di Monaco, le potenze teoricamente radicate sui valori cristiani (cioè le democrazie) sono state umiliate dal paganesimo totalitario: una resa infamante il cui motivo profondo, sostiene Eliot, va cercato nello smarrimento dei sacri principi della società cristiana. “Non potevamo opporre una convinzione ad un’altra, non avevamo idee che potessero farsi incontro né opporsi alle altre che ci stavano di fronte”.

Sia chiaro, Eliot non strumentalizza la religione. Lui è un credente serio e considera il cristianesimo anzitutto come verità a se, e solo secondariamente come base morale. “Giustificare il Cristianesimo perché esso offre una base morale, invece di dimostrare che la morale cristiana è necessaria perché il Cristianesimo è verità, è un’inversione di termini pericolosa”, afferma.

Il linguaggio è a volte un po’ datato, naturalmente. E non soltanto il linguaggio. Ma non è datata forse la Politica di Aristotele, con la sua giustificazione sbrigativa della schiavitù, per esempio? Eppure continua a essere un punto di riferimento per la riflessione morale e politica. Qualcosa di simile succede, secondo me, con l’”idea” di Eliot. Infatti del libro esistono traduzioni recenti, per esempio quella di Gribaudi (io però l’ho letto in una vecchia versione di Edizioni di Comunità del 1948).

La società di Eliot, articolata su uno Stato cristiano, una comunità cristiana (massa) e una “Comunità dei cristiani” (élite intellettuale), può sembrare una riesumazione del Medioevo, ma non lo è: in realtà, suggerita com’è da uno dei maggiori testimoni del desolato (waste, per usare le sue parole) secolo XX, è una proposta ricca di spunti per un dibattito che potrebbe essere molto fecondo su cosa vogliamo fare della società.

venerdì 17 dicembre 2010

Historias tristes

Con Hemingway y Dos Passos, en la escena literaria americana irrumpe en los años treinta John Steinbeck (1902-1968). Los tres repudian el felicismo insensato de los años veinte representado por Scott Filzgerald, y el público, que ha sufrido en la carne la crisis de 1929, les concede enseguida su favor.

Steinbeck, futuro premio Nobel (1962), será el poeta de los desheredados. Los títulos que le harán famoso, Ratones y hombres (1937) y Las uvas de la ira (1939), son historias de miseria que postulan la redención material del hombre como requisito de su redención moral.

A la vez, Steinbeck es el poeta de la fatalidad, del destino aciago. La perla (1947), una novela corta con la que muchos nos hemos iniciado, de muy chicos, en la literatura americana, presenta la fortuna como fruto prohibido en el jardín del pobre. Lo mismo se puede decir de Las praderas del cielo (1932), una novela compuesta por una docena de relatos.

Las praderas del cielo (Ediciones de Viento, 2007) es como un Spoon River en formato novela: cada historia es independiente, pero todas están localizadas en una misma comunidad, Las Praderas del Cielo, en California, y muchas tienen personajes en común (Pat Humbert, los Munroe, la maestra Molly Morgan...), aunque cada personaje es protagonista como máximo de una (es decir, en el resto tiene sólo un papel secundario).

La crónica de Las Praderas del Cielo es una reata de frustraciones: es la crónica de la fatalidad, como ya he dicho. Y sin embargo, el nombre del lugar está en relación con el salmo que reza “El Señor es mi pastor..., en verdes praderas me hace reposar”. Sus personajes son a veces ingenuos y a veces ruines, pero en ellos hay también grandeza: son pioneros y tienen todo un mundo que levantar, y esa misión, más implícita que declarada, se descubre nítidamente como telón de fondo de las diferentes historias, en admirable armonía con la mezquindad de los propósitos personales de cada hombre y de cada mujer.

Me gusta el ritmo fluido y desenfadado de la narración: “A George no le importó la epilepsia. Sabía que no podía tener todo lo que quería. Myrtle se convirtió en su esposa, le dio un hijo, y después de tratar de quemar su casa en dos ocasiones, fue encerrada en una pequeña prisión particular llamada Sanatorio Lippman, en San José”.

Lo confieso: también me gusta que las historias acaben mal. Las praderas del cielo es un álbum de fracasos, de sueños ingenuos que se estrellan con la realidad: es una inevitable sucesión de finales tristes, inapelables, catárticos.