venerdì 26 giugno 2009

Monte Corvo (poesía)

Tantas vaguadas, un valle,
tantos remansos, un mar,
tantos sueños, un destino,
tantas campanas, un Dios.

Tantas ventas, una casa,
tantos retratos, un tú,
tantos suspiros, un beso,
tantas flores, una flor.

Tantos versos, una pena,
tantas banderas, un rey,
tantos otoños, un roble,
tantas auroras, un sol.

Tantos vientos, una barca,
tantas palabras, un sí,
tantas ventanas, un cielo,
tantas voces, una voz.

sabato 20 giugno 2009

No es fácil, pero...

Llega el final de curso y, un año más, los periódicos hablan del fracaso escolar. Bien me parece. Sin embargo, hay otro fracaso más extendido y más grave del que hablan mucho menos y con el que pienso que sería todavía más necesario enfrentarse: el fracaso matrimonial.

Acabo de conocer en Barcelona a un africano que ha pasado un año en una ciudad española, trabajando y, a la vez, adquiriendo experiencia para luego, a la vuelta a su país, ponerse al frente de una iniciativa educativa en la que tiene puestas muchas ilusiones. Está enamorado de la pequeña capital de provincia en la que ha estado viviendo y dice muchas cosas buenas de España..., pero le sorprende la cantidad de matrimonios rotos que ha visto.

Tiene razón. Es una realidad que no deberíamos asumir como si nada.

Ya que estamos, resulta que hoy mis padres cumplen sus bodas de oro: para que conste que llegar a ese hito no es un imposible. Lo estamos celebrando como Dios manda, faltaría más.

Aventuras de una familia es un libro escrito por una cooperativa de ocho autores los ocho hijos de la feliz pareja que cuenta en cincuenta capítulos y al menos en otras tantas fotografías la historia de estos cincuenta años, e incluso de los anteriores.


Tiene alguna analogía con un libro que he leído hace poco, Bon dia, pare, memorable testimonio que Ramon Folch i Camarasa escribió hace cuarenta años sobre su padre, el también escritor Josep Maria Folch i Torres (el Andersen catalán), que tuvo no ocho sino diez hijos. Hombre, tiene también ciertas diferencias que lo hacen no tan memorable: primero, que su autor no es un escritor profesional, sino ocho aficionados (si llegamos a eso); segundo, que afortunadamente no se va a difundir comercialmente, sino sólo en la intimidad familiar. Además, naturalmente, su tono no es tan elegíaco como el de Bon dia, pare.
Por mi parte, claro, no estaría bien criticar el libro. Lo mejor que puedo decir de él es que ha sido escrito con gratitud y buena voluntad. A mí me sirve, además, para pasar a quien esto lea el mensaje de que sí, de que es posible comprometerse para toda la vida y mantener toda la vida el compromiso dado. No es fácil, desde luego. Pero ¿desde cuándo los hombres nos hemos contentado con hacer sólo cosas fáciles? Todos hacemos, más pronto o más tarde, algunas cosas difíciles, ¿no?: pues que sean las importantes. ¡Ánimo!

venerdì 12 giugno 2009

Riflessioni di un catacombaro

A pochi passi da casa c’è una catacomba: una delle tante catacombe romane chiuse al pubblico. E alcune settimane fa ho avuto occasione di perlustrarla con una quindicina di amici. Fa impressione: ha una grande basilica ipogea, affreschi, mosaici, nicchie a perdita d’occhio con ossa dei primi secoli dopo Cristo... Per visitarla si deve ottenere un’autorizzazione della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra, che predispone la presenza in loco di un addetto, e pagare cento euro, per cui, naturalmente, più gente c’è meno paga ognuno (ma c’è un limite: appunto quindici persone).

Con i suoi tre piani di gallerie, quella catacomba mi ha fatto pensare alla Divina commedia: inferno, purgatorio e paradiso. Non solo: nella catacomba sono entrato dal giardino di un normale villino unifamiliare, un po’ come Dante ha iniziato la sua discesa nell’aldilà; e similmente a quel percorso, che ha riportato Dante tra i suoi cari, così la catacomba, per quanto ho saputo una volta dentro, estende i suoi tentacoli fino ad arrivare... quasi sotto la mia casa.

Infatti, la Divina Commedia va letta così: non è terra incognita, come dicevano gli antichi esploratori, è il proprio, intimo, personale sottoterra, di Dante e di tutti noi. Non vorrei incomodare nessuno, ma in questo ultimo post (come annunciavo la settimana scorsa, sto chiudendo il blog) forse è il caso di essere, una volta tanto, un po’ apocalittici.

Essere apocalittici è parlare della fine del mondo, ma anche del dopo. Per esempio, del paradiso.

Dante dice che ciò che là si vede non può essere riferito, “perché appressandosi al suo disire / con l’intelletto si profonda tanto / che dietro la memoria non può ire”, cioè perché la volontà (il desiderio, il “disire”), e con essa l’intelletto, ne sono attirati con una tale forza che la memoria resta dietro, incapace di registrare quelle meraviglie. Che delle tre potenze dell’anima (memoria, intelletto e volontà) sia la memoria ad avere la peggio non mi stupisce: tra l’altro, san Giovanni della Croce dice che “alla sera della vita saremo esaminati sull’amore”, cioè sulla volontà. Ma è singolare che lo dica proprio Dante, che con tanta cura ricorda i torti che gli hanno fatto i suoi nemici, collocati sempre, non per caso, nell’inferno.

Comunque a me sta bene che invece nelle vicinanze di Dio la memoria non conti più di tanto; e soprattutto che Dio stesso sia un po’ smemorato, se —così ci dicono— è la misericordia (la disposizione a perdonare) l’attributo più genuino di colui che muove il sole e le altre stelle.

venerdì 5 giugno 2009

Cosmos e logos

George Steiner tocca in Grammatiche della creazione (Garzanti, 2003) molti temi. Ma il filo del suo discorso mi è sembrato, in sostanza, lo stesso della sua opera più nota, Vere presenze (1986): la creatività umana, anche se spesso aspira a proclamarsi autonoma, non lo è affatto. Malgrado tutti i tentativi di spogliarla di vincoli oggettivi tramite teorie del linguaggio, decostruttivismi e altro ancora, ha sempre dietro un referente reale (una presenza vera). Anzi, senza una grammatica codificata nel reale, non c'è creatività.

Ed è a questo punto che la cosa diventa seria. Torna anche in Grammatiche della creazione, come in Vere presenze, il grido ontologico di Steiner, ultima Cassandra di Occidente, di fronte all'attuale processo di rottura di quella alleanza tra cosmos e logos su cui la nostra cultura si è retta fin dalle sue origini. Ma adesso questo grido è più esplicito e, al tempo stesso, più rassegnato.

Più esplicito, perché punta il dito senza mezzi termini sull’abbandono della categoria metafisica e teologica di creazione come negazione coatta della possibilità di creazione umana. Più rassegnato, perché non vede alcuna possibilità di uscita da questo vicolo cieco. “La fine della creazione”, anziché Grammatiche della creazione, potrebbe essere il titolo di questo libro (penso soprattutto agli ultimi capitoli). Insomma, dice Steiner, la letteratura e l’arte sono al capolinea. E io in parte sono contento, perché allora devo mandare in soffitta anche questo blog, che, diciamo tutto, dopo quasi due anni di attività forse è diventata merce scaduta, non vi sembra?

Eppure qualche spiraglio per la creazione c’è, secondo me.

A un certo punto, Steiner parla dell’apparizione del movimento Dada e del suo ruolo nel processo di scissione tra discorso letterario e ordine razionale del mondo (e quindi di autoannullamento della creatività), a partire da un poema senza significato riconoscibile che ha scritto Hugo Ball nel 1916:

hollaka hollala
blago bung
blago bung
bosso fataka
ü üü ü

Ebbene, Hugo Ball, che nel 1916 rifiutava platealmente quel mondo assurdo e inumano (siamo ai tempi della grande guerra), è stato successivamente, fino alla sua prematura morte, un cattolico fervente.

Il dato può essere poco significativo per un agnostico come Steiner, ma per me è rivelatore di come la trascendenza non è legata a ciò che di essa possiamo pensare noi uomini. E lo stesso si dica, naturalmente, di quella costola della trascendenza che chiamiamo creatività, sempre in attesa di nuovi esploratori di vere presenze.