venerdì 30 ottobre 2009

Un regalo di cresima

Ecco fatto. A. & B. mi avevano chiesto, già prima dell’estate, di fare il padrino del loro figlio F., che si doveva cresimare. E giunto il giorno previsto —il sabato scorso—, ho fatto il padrino. Non solo: ho regalato al ragazzo un libro (tanto per cambiare), La montagna dalle sette balze, di Thomas Merton.

“Non sei obbligato a leggerlo”, gli ho detto (non conosco un altro approccio che possa funzionare con un quattordicenne). “Grazie”, mi ha detto lui con il calore di un iceberg.

Eppure io vado fiero della mia scelta. Ogni libro ha un momento, e per la cresima, secondo me, quello di Merton va benissimo.

Merton è nato a Prades, nella “Catalogna Nord” (in Francia, ma a ridosso dei Pirenei catalani), nel 1915. Ha pubblicato La montagna dalle sette balze, libro autobiografico dal titolo significativamente dantesco, nel 1948, sette anni dopo il suo ingresso in un monastero trappista del Kentucky. Perciò nelle vecchie edizioni c’era in copertina un trappista. Nell’ultima invece (Garzanti, 2006) è raffigurata una distesa infinita di montagne.

Il racconto è quello di uno spirito assetato di senso che si dibatte tra l’Europa e l’America, tra la miseria e il benessere, tra l’idealismo e i cedimenti. Nel 1938, Merton approderà alla fede cattolica nella New York dell’Università di Columbia, delle riviste letterarie e delle attrici di Broadway. Pochi mesi dopo, un amico ebreo (soltanto alcuni anni più tardi diventerà cattolico) lo spinge involontariamente alla trappa, quando un giorno gli spiega che non gli piacciono i cattolici come lui, che vogliono essere “buoni cattolici” ma non sanno cosa sia un buon cattolico. “Avresti dovuto dire che vuoi essere un santo”, gli fa lapidariamente l’amico, a conclusione del suo discorso.

Questa la storia, ridotta al succo. Ma Merton è uno dei grandi poeti americani del Novecento, e La montagna dalle sette balze, come altri suoi libri meno conosciuti (di poesia e di spiritualità, soprattutto), è avvincente forse più per il suo valore letterario che per i suoi contenuti religiosi, pur essendo questi, almeno per me, davvero seducenti.

Un banale incidente domestico troncherà la vita di Merton nel 1968 a Bangkok, dove partecipava a un congresso sul monachesimo. Pochi anni prima, una infermiera conosciuta durante un ricovero in ospedale aveva travolto il suo cuore come ai tempi dell’adolescenza. Il rapporto con lei, non intimo ma comunque incompatibile con la sua scelta di vita, ha avuto un lieto fine, per così dire: il lieto fine che il suo abate ha forzato quando, dopo vari tentativi vani di dissuasione, gli ha detto determinatamente di non sentire più quella donna. Con questa aggiunta: “Non è un consiglio, è un ordine”. E Merton, che naturalmente era stato cresimato e quindi era “soldato” di Cristo, ha obbedito.

Questo, comunque, La montagna dalle sette balze, che è anteriore, non lo racconta.

venerdì 16 ottobre 2009

Apocalypse... how?

En la novela con la que ganó el premio Pulitzer hace dos años, La carretera, Cormac McCarthy presenta su apocalipsis americano (la vida después de un holocausto nuclear) como una especie de universo de signos del que las sustancias se han escurrido: “el sagrado idioma desprovisto de sus referentes y por tanto de su realidad”, las bibliotecas que no dicen más que mentiras, un copo de nieve que expira en la palma de la mano “como la postrera hostia de la cristiandad”.

En la América post 11-S, una perspectiva de ese tipo es inquietante, y quizá por eso McCarthy, escritor alérgico al media system, concedió una entrevista sobre el tema a Oprah Winfrey. Yo empecé a verla y me aburrí, pero, por si a alguien le interesa, está en YouTube (troceada: o sea, en varios vídeos distintos que hay que ir viendo uno detrás de otro).

Por supuesto, lo interesante en La carretera (Mondadori, 2007) no es su historia, sino su filosofía de la historia. Dios ha creado todas las cosas para que sean, dice el libro de la Sabiduría, pero he aquí que los hombres nos hemos empeñado en aniquilarlas: en hacer que dejen de ser, en cargarnos el mundo. Y éste es un gran tema filosófico: un gran tema de filosofía de la historia en su sentido más profundo.

Recuerdo vagamente una antigua lectura, El fin del tiempo, de Josef Pieper, un filósofo tomista. Al término de la segunda guerra mundial, un cierto nihilismo camuflado de existencialismo había desplegado ante los ojos de la humanidad el escenario hipotético de la nada, que la experiencia de la bomba atómica —una experiencia entonces muy concreta— hacía perfectamente coherente. Pieper aceptó el reto y acometió en aquel libro, desde su punto de vista teológico, la problemática de la aniquilación del mundo.

Si la memoria no me traiciona, lo que venía a decir Pieper es que el Apocalipsis verdadero, es decir, el libro con el que se cierra la Biblia, presenta el fin del mundo en una óptica muy distinta, pues no habla de destrucción del mundo, sino de “un cielo nuevo y una tierra nueva”. Y a esa nueva tierra, sostenía Pieper, se llega no por la aniquilación de la actual (pues Dios crea para que las cosas sean), sino por su transposición fuera del tiempo. Es decir, la annihilatio no resulta admisible teológicamente.

Así sea. Pero, ciertamente, la historia lo está poniendo difícil. Se entiende que Cormac McCarthy parezca interpretar las cosas de otra manera.