domenica 28 aprile 2013

Zagajewski, poeta impegnato

Siamo come palpebre, dicono le cose,
sfioriamo gli occhi e l’aria, l’oscurità
e la luce, l’India e l’Europa… 

Dalla vita degli oggetti (Adelphi 2012, a cura di Krystyna Jaworska) è una antologia poetica di Adam Zagajewski. I versi precedenti appartengono al poema da cui essa prende il nome, che naturalmente non è l’unico in cui l’autore dialoga con gli oggetti. Si veda, per esempio, quella intitolata Pittori d’Olanda.

Una donna sbuccia in raccoglimento una mela vermiglia.
I bambini sognano la vecchiezza.
Qualcuno legge un libro (il libro è letto),
qualcuno dorme e si muta in caldo oggetto
che respira (come una fisarmonica)…

Zagajewski non si rifiuta di parlare delle cose come “oggetti”. Rilke, che riteneva che oggettivare le cose fosse sempre un’aggressione contro le cose stesse, forse avrebbe avuto qualcosa da dire. Ma c’è poco da fare: le cose ci interpellano.

(…) Dite, pittori d’Olanda, cos’accadrà
Quando la mela sarà sbucciata,
quando si offuscherà il velluto,
quando tutti i colori diventeranno freddi?
Dite cos’è l’oscurità.

Le cose ci interpellano, perché inevitabilmente siamo fatti di rapporti con persone, animali e cose. Di particolare interesse mi sembra, a questo riguardo, La separazione, dove “oggetto” della visione del poeta è la propria moglie: oggetto d’amore in senso forte, oggetto addirittura inseparabile da lui.

E nel dichiararlo inseparabile, in un contesto in cui tutto parla di individualismo e di separatezza, Zagajewski prende un impegno etico non solo con sua moglie (anche se, diciamo tutto, non è la prima), ma con l’universo poetico.

Quasi con invidia  leggo le opere dei miei contemporanei
su divorzi, addii, il dolore delle separazioni;
sofferenza, nuovi inizi, piccole morti;
lettere lette e bruciate, bruciare e leggere, fuoco e cultura,
ira e disperazione — magnifica materia per una poesia riuscita;
un duro giudizio, a volte una risata sarcastica di superiorità morale,
e insieme definitivo trionfo della continuità individuale.

E noi? Non ci saranno elegie, né sonetti sulla separazione,
non ci dividerà lo schermo dei versi,
non si porrà fra noi una metafora riuscita,
l’unica separazione che ora ci minaccia è il sonno,
il profondo antro del sonno la cui soglia varchiamo separati,
— e devo sempre ricordare che la tua mano,
stretta nella mia, è fatta di sogni.

domenica 14 aprile 2013

El estoicismo del teniente Drogo

El teniente Drogo es enviado a una posición fronteriza. Es su primer destino. Más allá, en el inexplorado desierto, acecha el enemigo. El desierto de los tártaros, de Dino Buzzati (Alianza, 2012), es una de las grandes novelas del impasse de la aspiración del hombre moderno a la trascendencia. Otra sería El castillo, de Kafka, pero lo que en K. es empeño frustrado, denuedo, agonismo, en Drogo es pura espera y pasividad: impasse no solo padecido, sino, por así decir, practicado.

Al poco de llegar, Drogo se da cuenta de que aquel sitio es un cuelgue, como diríamos hoy. Ve cómo otros oficiales piden el cambio de destino y se lo dan, y él mismo emprende muy pronto la sencilla gestión burocrática de la solicitud de traslado. Ya todo está expedito para su marcha cuando algo le detiene: Drogo finalmente decide quedarse, porque el día en que el enemigo ataque él quiere estar allí, él tiene que estar allí.

Pasarán los días, los meses, los años. Drogo envejece sin que el enemigo se haya presentado. Pero ha sido fiel a lo que, nunca mejor dicho, era su destino, y en el momento de la muerte tendrá un atisbo de esos tártaros amenazadores que han dado sentido a su vida. Naturalmente, su condición de moribundo le impedirá hacer nada contra ellos; y naturalmente, la posteridad no conservará de él ninguna memoria.

En 1940, cuando Buzzati publicó El desierto de los tártaros, Italia entró en la guerra al lado de Alemania y se convirtió en un tártaro que se despertaba. Hoy es más bien un teniente Drogo que espera el ataque, la embestida final de esos nuevos tártaros que son los mercados. Mejor esto que lo otro.