domenica 30 agosto 2009

Sulla letteratura femminile

La casa editrice Sellerio compie quarant’anni, e per celebrarlo vara una nuova collana, “La rosa dei venti”, con alcuni titoli emblematici che ha stampato nel corso di questi quattro decenni. Tra i primi dieci (si annuncia una seconda serie di altri dieci) c’è La casa nel vicolo, di Maria Messina.

Si tratta di un piccolo capolavoro. Sellerio va fiera di aver lanciato Camilleri, ma molto più fiera può andare di aver riscoperto Maria Messina. Scrittrice di successo, ancora giovane, nel secondo e nel terzo decennio del Novecento, la sua carriera è stata troncata da una forma terribile di sclerosi con cui ha dovuto convivere per lunghi anni. Dimenticata da tutti molto prima della morte (1944), soltanto nel 1981 qualcuno penserá a lei: appunto Sellerio, con la pubblicazione di un volume, Casa paterna, contenente tre racconti corredati da una bella nota editoriale di Leonardo Sciascia, che la definisce la Katherine Mansfield siciliana. Poi verranno altri volumi, e Maria Messina riprenderà un po’ il posto che le spetta nelle lettere italiane e internazionali (infatti le traduzioni non sono mancate in questi anni).

Di Maria Messina mi affascina la bravura a far parlare i suoi presonaggi non soltanto con le loro parole, ma anche, per esempio, con i loro silenzi: “Nel profondo silenzio che riempì la stanza, passarono amare parole non dette”.

O anche con azioni e pensieri in cui freme, semplice e tremendo, il sangue. Antonietta, la sorella di Nicolina, è stata tra le grinfie della morte durante il parto di una bambina, e i pensieri di Nicolina diventano cupi alla vista della neonata, che dorme con i pugni chiusi: “Che mai teneva nei piccoli pugni chiusi? Forse la felicità... Ognuno di noi, nascendo, stringe i pugni per non lasciarsi sfuggire un bene che non ritroverà mai più...”.

Fa parlare il sangue, infatti, Maria Messina. Sangue che tramanda miti ancestrali di generazione in generazione e che pulsa nei singoli cuori in modo soffertamente violento. Sangue soprattutto di donna, come in questo caso. Anche perché quella della Messina è letteratura femminile nel senso più puro del termine: cioè non soltanto rivolta alla donna, ma scritta da donna e riguardante una donna. Anzi, riguardante la donna.

“«Fosse almeno un maschietto» si disse. La sua sorte sarebbe stata più facile. Le donne sono nate per servire e per soffrire. Non per altro”.

Semplice e concludente, non è vero? Che dire? Che Nicolina ha ragione, naturalmente. Che per troppo tempo la donna è stata consegnata a un destino indegno in questo mondo.

E che a farne le spese non sono state soltanto le donne, ma tutti: gli uomini e le donne. Come sarebbero andate le cose, per esempio, se nella prima metà del secolo scorso fossero state donne, anziché uomini, a governare in Germania, in Russia, negli Stati Uniti, in Inghilterra...? Sono convinto che non avremmo avuto due guerre mondiali.

Largo alla donna, dunque. Almeno, per provare a cambiare qualcosa, visti i disastri che noi uomini abbiamo combinato.

sabato 15 agosto 2009

Zagajewski: llamémoslo poesía

“En la niñez, algunos árboles susurraban incluso en los día sin viento”. Es una frase con la que he topado en el curso de la lectura de En la belleza ajena, de Adam Zagajewski (Pre-Textos, 2003).

En la belleza ajena es un libro inclasificable de recuerdos y reflexiones que tiene por escenario Cracovia, una de las ciudades de mi lista de cosas por ver.

A Cracovia llegó en 1963 un joven Zagajewski para estudiar en la universidad. Pero, naturalmente, el de la formación universitaria no es el único sentido en que se puede decir que En la belleza ajena es el Bildungsroman —la novela de formación— del propio Zagajewski.

Escribe Zagajewski: “Una particularidad feliz de la juventud —en especial de la juventud del artista— es la casi inocente divinidad de los instantes de entusiasmo, los primeros descubrimientos, los primeros febriles momentos de alegría a la vista del tejado del mundo, que va elevándose ligeramente y va descorriendo el velo del misterio. ¡Oh, inocente alegría! Las puertas se abren, siquiera durante un momento, y aparece la luz. Y nosotros somos aún tan jóvenes que nos basta el entusiasmo; todavía no preguntamos por su sentido y por su lugar en el espeso tejido de la comunidad humana; aún somos como un jugador que gana una suma colosal y no se pregunta qué hará con ese dinero”.

Zagajewski, hay que saberlo (también para entender el título de su libro), es un apologista de la belleza y de la verdad: de todo eso tan básico que hoy se niega o se relativiza (Zagajewski va claramente contra corriente) y que a él le gusta unificar bajo el término de “poesía”, pero que también llama, con frecuencia, “fervor” o “entusiasmo”.

Escrito desde la atalaya de la madurez, En la belleza ajena es una revisitación constructiva del entusiasmo juvenil: “Después, con cada paso y cada nueva revelación, irá creciendo la inquietud, y la pregunta de qué es ese entusiasmo, de dónde viene y, sobre todo, con qué sentido llenarlo adquirirá poco a poco mayor importancia. Porque el entusiasmo se nos da, pero su significado tenemos que encontrarlo nosotros mismos, construirlo. Con la desesperanza ocurre al revés: parece ofrecernos —¡y de buen grado, sin que se le pregunte!— cada vez más explicaciones a medida que pasan los años”.

Hoy no es frecuente encontrar palabras tan luminosas. Por si hubiera alguna duda, aclaro que estoy con Zagajewski: con el partido de la poesía.

“¿Qué une la poesía y la música? La poesía”. Es otra cita de En la belleza ajena.