domenica 27 giugno 2010

Idee chiare e volontà: ancora su Joseph Roth

L’editore Dalai, già Baldini Castoldi, ha appena riproposto La leggenda del santo bevitore, la novella postuma di Joseph Roth (1939), un’opera che mi sembra un prodigio di letteratura, ma anche di mistificazione: non c’entra niente con il destino, secondo me, quella deriva verso l’autodestruzione. Non c’è in essa tragedia, non c’è grandezza, non ci sono degli eroi. C’è soltanto la fatalità dell’uomo senza volontà, condannato a subire se stesso, adagiato senza resistenza alle proprie debolezze, incapace di coronare i progetti a cui è chiamato.

È un tratto comune a tanta letteratura dell’ultimo secolo, è vero. Eppure...

Alcuni danno del puritano, o del metodista, a chi predica l’esercizio della volontà contro gli appetiti, ma è ovvio che la volontà non è un elemento meno umano degli appetiti, e quindi non si è più uomini cedendo all’istinto che subordinandolo alla volontà.

Dai Quaderni di Simone Weil:

“La volontà. Non è difficile fare qualsiasi cosa, quando si è animati dall’idea chiara di un dovere. Ma la cosa dura è che nel momento in cui si soffre questa idea chiara svanisce, e non resta che la coscienza di una sofferenza impossibile da sopportare.
Ma è vero anche l’inverso: al momento di prendere la decisione, il dovere è presente, la sofferenza ancora lontana. La volontà non potrebbe trionfare se dovesse lottare direttamente contro forze superiori. Tutta l’arte del volere consiste nel profittare del momento in cui la lotta non è cominciata per determinare in un senso conforme a ciò che si vuole la situazione oggettiva in cui ci si troverà nel momento in cui si sarà deboli.
«Tu tremi...» [parole di Turenne al proprio corpo: «Tu tremi, carcassa, ma se sapessi dove sto per condurti, tremeresti ben di più», N.d.T.].
L’unica arma della volontà consiste, per la parte in cui essa è un pensiero, nel poter abbracciare i diversi istanti del tempo, mentre il corpo è limitato al presente. In definitiva, si tratta dunque semplicemente di rifiutare alle passioni il concorso del pensiero.
Non «prendere delle risoluzioni», ma legarsi le mani in anticipo”.

Sempre sulla volontà, ricordo quella frase di una poetessa spagnola, Carmen Conde (1907-1996), sulla “volontà di ferro” che opponeva a ciò che desiderava ma non voleva fare.

Mi piace questa contrapposizione tra volere e desiderare. Non sono la stessa cosa, è chiaro. Oggi però spesso si scambiano, a danno della volontà, naturalmente, non del desiderio, perché nella mescolanza ha sempre la meglio la parte inferiore.

Malgrado il titolo, La leggenda del santo bevitore è la storia di un bevitore non santo. Abulico e meschino, crede nei miracoli ma in realtà non li vuole. Fa rimpiangere quel “santo assassino" (così viene preconizzato da una indovina) di nome Tarabas.

domenica 13 giugno 2010

Un personaggio russo di Joseph Roth

Le figure oscene disegnate sulle pareti della taverna cadono a pezzi sotto i colpi di pistola. I soldati si divertono con quell’esercizio folle di tiro al bersaglio. Finché a un certo punto compare sul muro un affresco della Madonna. Qualcuno grida al miracolo, ma basta poco per far ritornare il buon senso. E così in pochi minuti ci si organizza per punire i soliti sospetti, cioè gli ebrei. Sospetti, questa volta, di aver ricoperto quell’immagine sacra con uno strato di calce.

È la scena memorabile del pogrom, in Tarabas, uno degli ultimi romanzi di Joseph Roth, del 1934.

Attorno a Joseph Roth, e attorno al singolare misto di reazione, nostalgia e alcolemia da lui rappresentato, si è sviluppata una leggenda che ciclicamente viene alla ribalta. Comune mortale quale sono, io stesso ho ceduto alla leggenda e sono diventato per un certo tempo un lettore vorace dei suoi libri. Ma sono pochi quelli di cui ho un ricordo forte. Non certo quelli del ciclo asburgico (La marcia di Radetzki, La cripta dei cappuccini), dai personaggi molli che sbadatamente vedo andare in rovina. Tarabas, ecco invece un romanzo di Roth con un protagonista spiritualmente robusto, di quelli che non ti fanno dormire. Lo ha pubblicato, naturalmente, Adelphi.

Nikolaus Tarabas ha perso l’impero, e fin qui niente di nuovo nella tipologia dei personaggi di Roth: come i Trotta nel ciclo asburgico hanno perso l’impero austroungarico (o come lo stesso Roth nella vita reale), così Nikolaus Tarabas ha perso l’impero dello zar ed è rimasto heimatlos, senza patria. Perciò a un certo punto la guerra —quella guerra civile in cui la Russia, dopo la rivoluzione, continuava a dissanguarsi— diviene la sua patria: “la guerra divenne la sua patria” , scrive Roth in uno dei suoi rari momenti di fanfara linguistica, “la guerra divenne la sua grande, sanguinosa patria”.

Infatti Tarabas è votato alla guerra come un suddito fedele al suo re. E, nuovo Saulo per le strade del mondo, quando nella guerra trova la sua Damasco, della guerra conserva l’estro e lo slancio. Violento e imprevedibile come la guerra, Tarabas è spinto da forze tanto profonde da rasentare l’inumano. Ma, bisognoso di redenzione, non lo vedremo tra quelli che la cercano nei facili capri espiatori.

Nikolaus Tarabas è russo. Ed è il caso di dire, non solo per questo, che la sua storia avrebbe potuto raccontarla Dostoevskij.