domenica 28 marzo 2010

Bambini buoni e adulti che fanno capricci

Di Giorgio Montefoschi non ho letto nessun romanzo. Di lui so soltanto che è un autore conosciuto in tutta Italia e che addirittura una volta ha vinto il premio Strega. So anche che abitiamo nello stesso quartiere. E poi ricordo di averlo sentito, tempo fa, nella presentazione di un libro non suo. Ecco tutto.

Quindi, se oggi Montefoschi subisce le mie attenzioni non è per i suoi libri. È per un articolo che ha pubblicato sul Corriere qualche mese fa, a ridosso del Natale. Un pezzo molto breve in cui dice cose che, pur giustissime e attualissime, raramente trovano spazio nel discorso pubblico.

La famiglia che non c’è più e il disagio crescente dei bambini

I bambini sono le prime vittime del mondo indifferente, rapace, volgare in cui viviamo. Ma lo sono non soltanto i bambini che muoiono di fame e di malattie nel Terzo Mondo. Lo sono, anche, moltissimi bambini ben «protetti» che vivono nel nostro mondo occidentale, e vanno a scuola, fanno lo sport, tornano a casa e guardano ore di tv.

La malattia mortale che tocca una quantità enorme di questi bambini «sani» è la famiglia. Non certo la famiglia tradizionale, nella quale esistevano un padre e una madre che vivevano insieme, e davvero in questo modo proteggevano e rendevano felici i loro figli. Perché, prima ancora di ogni politica e progetto (sacrosanti) per salvaguardare i bambini, questo, senza troppi giri di parole, e odiose falsità mondane, è il punto: la famiglia. La famiglia che, drammaticamente, con numeri ormai esponenziali, vediamo non esistere più. Il problema non è la regolamentazione delle unioni. Il problema, dolorosissimo, è il dover prendere atto della disgregazione delle unioni. I bambini, istintivamente, cercano l' unione, una Unità che è sostanziale del loro essere. Questo dovrebbero saperlo tutti i padri e le madri che oggi fanno una famiglia e dei figli, e poi, dopo due anni, dopo cinque anni, letteralmente si stufano, trovano un altro o un' altra o litigano o hanno qualche difficoltà, e per questo mandano all' aria la famiglia e distruggono la felicità dei loro figli. Le «nuove famiglie» che poi (ormai, purtroppo, in tutte le classi sociali) mettono in piedi questi padri e queste madri, le famiglie cosiddette «allargate», con il fidanzato della mamma e la fidanzata del papà, non sono più una famiglia. Sono un' altra cosa. Che magari funziona alla grande, magari è allegrissima con tutti quegli scambi di fidanzati e di fratellini. Ma non è la vera famiglia. Perché i bambini vogliono il loro padre e la loro madre. E non altro.

È vero che ci sono molte separazioni inevitabili. Ed è vero che i bambini nel dolore si fortificano e si adattano a tutto. Ma non per questo bisogna approfittare dei bambini: che sono assai più generosi e buoni degli adulti.

domenica 14 marzo 2010

Delibes como maestro

Ayer me enteré por el periódico de la muerte de Miguel Delibes. Hace poco me había preguntado a mí mismo si seguiría vivo, porque llevaba tiempo sin oír hablar de él.

Hubo un momento en mi vida en que fui un lector voraz, más que atento, de Delibes. Si en mi firmamento de libros aparecía uno suyo, los demás tenían que cederle el paso. Ciertamente, soy de los que habrían preferido que el Nobel de Cela (1989) se lo hubieran dado a él. No es justo que Cataluña no tenga ningún premio Nobel, pero aún lo es menos que no lo tenga Castilla León, reserva natural de las esencias de la lengua española y cuna, hoy como ayer, de grandes escritores. En Estocolmo siempre han preferido a los andaluces: Aleixandre en vez de Guillén; Juan Ramón Jiménez en vez de León Felipe. Cela no es andaluz sino gallego, pero el resultado, para el castellano Delibes, es el mismo.

Delibes tiene una novela que no es de las más conocidas, pero que a mí me causó un impacto tremendo: Parábola del náufrago, de 1969, me parece. Yo la leí muchos años después, en mi época de adicción a sus libros, siendo estudiante de universidad más o menos. Es una novela experimental, que mezcla técnicas narrativas diversas y somete al lector a un ritmo sincopado, a ratos desbocadamente trepidante, que lo sacude por dentro y le hace sentirse incómodo en su sillón.

Si no me equivoco, Parábola del náufrago se enmarca, temporalmente, entre Cinco horas con Mario y El príncipe destronado, es decir, está en medio de ese último decenio del franquismo en que la crítica social de Delibes se traslada del campo a la ciudad y se hace un poco más ácida. Pero Parábola del náufrago no está explícitamente ambientada en la España de Franco. Es, como el título indica, una parábola: la parábola de un mundo desencantado, tecnológico, opresivo, deshumanizado, en que el náufrago es el hombre, con su evidente, encantadora poquedad. Se abre con una cita de Horkheimer, si no recuerdo mal, y se cierra con un final no precisamente feliz.

El obituario de la FAZ dice que España, con la muerte de Delibes, no sólo ha perdido a un escritor eximio: ha perdido a una de sus grandes autoridades morales.