venerdì 30 gennaio 2009

Mistica Simone Weil

Nel centenario —martedì prossimo— di Simone Weil (1909-1943), ecco una sua gemma. Compare due volte nel manoscritto dei quaderni americani (La connaisance surnaturelle, 1950) e una nei quaderni marsigliesi (La pesanteur et la grâce, 1947). Nella sua edizione complessiva dei Quaderni (Adelphi), Giancarlo Gaeta lo propone come prologo.


Entrò nella mia camera e disse: “Miserabile, che non comprendi nulla, che non sai nulla. Vieni con me e t’insegnerò cose che neppure sospetti”. Lo seguii.

Mi portò in una chiesa. Era nuova e brutta. Mi condusse di fronte all’altare e mi disse: “Inginocchiati”. Io gli dissi: “Non sono stato battezzato”
[la frase è al maschile in tutte e tre le stesure, ndt]. Disse: “Cadi in ginocchio davanti a questo luogo con amore come davanti al luogo in cui esiste la verità”. Obbedii.

Mi fece uscire e salire fino a una mansarda da dove si vedeva attraverso la finestra aperta tutta la città, qualche impalcatura in legno, il fiume dove alcune imbarcazioni venivano scaricate. Nella stanza c’erano solo un tavolo e due sedie. Mi fece sedere.

Eravamo soli. Parlò. Talvolta qualcuno entrava, si univa alla conversazione, poi se ne andava.

Non era più inverno. Non era ancora primavera. I rami degli alberi erano nudi, senza gemme, in un’aria fredda e piena di sole.

La luce sorgeva, splendeva, diminuiva, poi le stelle e la luna entravano dalla finestra. Poi di nuovo sorgeva l’aurora.

Talvolta taceva, prendeva da un armadio un pane e lo dividevamo. Quel pane aveva davvero il gusto del pane. Non ho mai più ritrovato quel gusto.

Mi versava e si versava del vino che aveva il gusto del sole e della terra dove era costruita quella città.

Talvolta ci stendevamo sul pavimento della mansarda, e la dolcezza del sonno scendeva su di me. Poi mi svegliavo e bevevo la luce del sole.

Mi aveva promesso un insegnamento, ma non m’insegnò nulla. Discutevamo di tutto, senza ordine alcuno, come vecchi amici.

Un giorno mi disse: “Ora vattene”. Caddi in ginocchio, abbracciai le sue gambe, lo supplicai di non scacciarmi. Ma lui mi gettò per le scale. Le discesi senza rendermi conto di nulla, il cuore come in pezzi. Camminai per le strade. Poi mi accorsi che non avevo affatto idea di dove si trovasse quella casa.

Non ho mai tentato di ritrovarla. Capii che era venuto a cercarmi per errore. Il mio posto non è in quella mansarda. Esso è ovunque, nella segreta di una prigione, in uno di quei salotti borghesi pieni di ninnoli e di felpa rossa, in una sala d’attesa della stazione. Ovunque, ma non in quella mansarda.

Qualche volta non posso impedirmi, con timore e rimorso, di ripetermi un po’ di ciò che egli mi ha detto. Come sapere se mi ricordo esattamente? Egli non è qui per dirmelo.

So bene che non mi ama. Come potrebbe amarmi? E tuttavia in fondo a me qualcosa, un punto di me, non può impedirsi di pensare tremando di paura che forse, malgrado tutto, mi ama.

venerdì 23 gennaio 2009

La América de Ethan Canin

La lectura de Todo un carácter, de Imma Monsó, me ha encendido en alguna neurona el recuerdo de un cuento de Ethan Canin titulado Memoria musical. Pertenece al primer libro de Canin, El emperador del aire (Emecé, 1999), muy superior, para mi gusto, a los siguientes (al menos, a los que yo he leído). Recuerdo, además de Memoria musical, otras dos joyas de aquel volumen, Mentiras y El lugar donde ahora estamos.

Canin da voz a personajes muy variados pero casi siempre con ideas muy claras sobre sí mismos. Esto es de agradecer. Quizá es un rasgo de ingenuidad americana, pero a mí no me molesta: al revés.

En Memoria musical, la protagonista es una camarera: una mujer con aficiones artísticas pero que es y quiere ser camarera. Su madre, a la que ha ido a ver el día de acción de gracias, está empeñada en comprarle ropa, a lo que ella se resiste. Tiene también una hermana cardiocirujana.

Se trata de un triángulo femenino prácticamente igual al de la novela de Imma Monsó (también porque el punto de vista es el de una hija), pero resulta mucho más cautivante. En Canin, las manías de la madre no son objeto de chiste: son las manías de una mujer que es tu propia madre. El modesto horizonte de la narradora es una opción sufridamente deliberada, no el resultado de la inacción. No sé si me explico. El humor, por lo demás, no está ausente en Canin, pero estalla en el sitio justo.

En fin, que me quedo con Canin. En Canin, la chispa del cuento es siempre un instante de luz interior en el que el protagonista —narrador, a la vez— reconoce, en una imagen o en un hecho, mucho más que la superficie de esa imagen o de ese hecho.

En cierto momento, la madre y las dos hijas cantan a tres voces. La hija camarera no consigue dar bien la nota más que cuando le toca incoar a ella. Si, en cambio, ha de entrar con la canción en marcha, entra siempre mal.

Conozco a muchos a los que les pasa eso: la vida, tal como está planteada, les resulta intransitable. Y entiendo que vayan a la suya, en el buen sentido.

venerdì 16 gennaio 2009

Una poesía de Alejandra Pizarnik


Caminos del espejo


I
Y sobre todo mirar con inocencia. Como si no pasara nada, lo cual es cierto.

II
Pero a ti quiero mirarte hasta que tu rostro se aleje de mi miedo como un pájaro del borde filoso de la noche.

III
Como una niña de tiza rosada en un muro muy viejo súbitamente borrada por la lluvia.

IV
Como cuando se abre una flor y revela el corazón que no tiene.

V
Todos los gestos de mi cuerpo y de mi voz para hacer de mí la ofrenda, el ramo que abandona el viento en el umbral.

VI
Cubre la memoria de tu cara con la máscara de la que serás y asusta a la niña que fuiste.

VII
La noche de los dos se dispersó con la niebla. Es la estación de los alimentos fríos.

VIII
Y la sed, mi memoria es de la sed, yo abajo, en el fondo, en el pozo, yo bebía, recuerdo.

IX
Caer como un animal herido en el lugar que iba a ser de revelaciones.

X
Como quien no quiere la cosa. Ninguna cosa. Boca cosida. Párpados cosidos. Me olvidé. Adentro el viento. Todo cerrado y el viento adentro.

XI
Al negro sol del silencio las palabras se doraban.

XII
Pero el silencio es cierto. Por eso escribo. Estoy sola y escribo. No, no estoy sola. Hay alguien aquí que tiembla.

XIII
Aun si digo sol y luna y estrella me refiero a cosas que me suceden. ¿Y qué deseaba yo? Deseaba un silencio perfecto. Por eso hablo.

XIV
La noche tiene la forma de un grito de lobo.

XV
Delicia de perderse en la imagen presentida. Yo me levanté de mi cadáver, yo fui en busca de quien soy. Peregrina de mí, he ido hacia la que duerme en un país al viento.

XVI
Mi caída sin fin a mi caída sin fin en donde nadie me aguardó pues al mirar quién me aguardaba no vi otra cosa que a mí misma.

XVII
Algo caía en el silencio. Mi última palabra fue yo pero me refería al alba luminosa.

XVIII
Flores amarillas constelan un círculo de tierra azul. El agua tiembla llena de viento.

XIX
Deslumbramiento del día, pájaros amarillos en la mañana. Una mano desata tinieblas, una mano arrastra la cabellera de una ahogada que no cesa de pasar por el espejo. Volver a la memoria del cuerpo, he de volver a mis huesos en duelo, he de comprender lo que dice mi voz.


La poeta argentina Alejandra Pizarnik (1936-1972) es un misterio en el que algún día me gustaría penetrar. Pasó los dos últimos años de su vida en un sanatorio psiquiátrico y se suicidó durante un fin de semana de permiso en su casa. Sus obsesiones intensas no me atraen demasiado: pienso que son otras fuerzas, otros vientos más augustos, los que dan aire a su voz agónica.

venerdì 9 gennaio 2009

Faust e la coscienza occidentale

Murnau ha intitolato il suo film Faust: una leggenda tedesca. E, come lui, anche Thomas Mann ha fatto del protagonista di Doktor Faustus una figura dell’homo germanicus. Ma in realtà nel secolo XX Faust ha valicato i confini della Germania: è diventato, più genericamente, un archetipo dell’uomo occidentale.

Decisivo è stato, in questo processo, Oswald Spengler (1880-1936). Nel saggio Il tramonto d’Occidente, Spengler presenta la storia dell’umanità come la successione di otto grandi civiltà, ognuna con una durata di mille anni circa: egiziana, babilonese, cinese, indiana, messicana, apollinea, magica e faustiana. La nostra, dice Spengler, è una civiltà faustiana perché caratterizzata dalle contraddittorie aspirazioni dell’uomo occidentale: bene e potere, amore e possesso... Sarebbe, comunque, una civiltà al capolinea, come rilevano alcuni fenomeni contemporanei (astrattismo, massificazione) tipici delle fasi di declino.

Al pessimismo di Spengler si oppone lo storico inglese Arnold Toynbee (1889-1975) in un libro altrettanto geniale, Uno studio della storia (1934-1954), opera in dodici volumi che a un certo punto una collaboratrice dell’autore, Dorothea Grace Somerwell, ha compendiato in tre. È questo compendio, firmato da Toynbee, ciò che la maggior parte dei lettori di Uno studio della storia, me compreso, ha letto. In inglese conserva lo stesso titolo (cioè A Study of History). In italiano, invece, fu pubblicato come Storia comparata delle civiltà (Newton Compton, 1974).

Infatti, anche per Toynbee i grandi attori della storia sono le civiltà. Ma la sua mappa delle civiltà è diversa di quella di Spengler. Toynbee dimostra, per esempio, che in ogni momento della storia ci sono varie civiltà attive, non soltanto una. Nel secolo XX ne identifica cinque: cristiana occidentale, cristiana orientale, islamica, induista e estremo orientale. Altre sedici sono morte nel corso della storia (per esempio, la civiltà ellenica, madre della cristiana occidentale e della cristiana orientale).

Soprattutto, Toynbee non ammette che la nostra civiltà, da lui denominata cristiana occidentale, stia per morire. La sua fiducia nella libertà dell’uomo come motore della storia, e anche la sua fiducia nei valori spirituali (insomma, la fiducia nell’uomo e in Dio), lo conducono alla conclusione che la storia è sì ciclica, ma anche progressiva. Secondo lui, la società cristiana occidentale, malgrado il suo apparente tramonto, è spiritualmente attrezzata non soltanto per non morire (la storia dimostra che è sempre possibile, nell’ora critica, una palingenesi), ma per dare la propria impronta, in un mondo sempre più globalizzato, alle altre quattro ancora in vita.

Io non credo nell’eternità della società cristiana occidentale, ma mi attira l’impostazione di Toynbee. Preferisco riconoscermi in una civiltà cristiana occidentale che in una civiltà soltanto faustiana. Perché, in quanto occidentale, è faustiana (con tanto, quindi, di nobili aspirazioni); ma, in quanto cristiana, si fonda sul rapporto uomo-Dio anziché uomo-demonio.

Insomma, ci sono ancora nella nostra civiltà, come nelle altre, tante riserve di energia da far venire in luce. Sarà una luce crepuscolare, d’accordo (tra l’altro, l’Occidente si addice al tramonto, come l’Oriente all’aurora); ma è sempre una luce che illumina.

sabato 3 gennaio 2009

Faust dal comico al tragico

Il Faust di Goethe ha due parti, come è saputo. Invece il Faust di Murnau, un film espressionista del 1926, ne ha undici: cioè, undici sono gli spezzoni in cui è stato diviso da un cinefilo coraggioso (forse troppo) che lo ha messo su Youtube. L’ho visto qualche settimana fa: non è il massimo come qualità d’immagine, ma è a portata di mano e a costo zero.
Comunque, siccome questo blog non si chiama Buenos Films nos dé Dios, ma piuttosto Buenos Libros nos dé Dios, dovrei parlare non del Faust cinematografico, ma di quello letterario. Largo quindi al Faust di Marlowe (1604) e di Goethe (1808 e 1832), e soprattutto a quest’ultimo, anche perché, lo confesso, il Doctor Faustus di Marlowe non lo conosco.

Con Goethe, il personaggio Faust ha raggiunto una vetta: è diventato il paradigma mitico dell’aspirazione al sapere, cioè di quell’aspirazione che, secondo l’illuminismo, sarebbe la più nobile che possa esistere.

È quindi coerente che Goethe, alla fine della seconda parte, lo salvi (dall’inferno, non dalla morte). Lontani erano i giorni in cui la memoria del vero Johann Faust, un medico stregone vissuto nei primi decenni del XVI secolo che vantava particolari rapporti con il demonio, veniva demonizzata (è proprio il caso di dirlo) da Lutero e Melanchton.

Tra il Faust reale e quello di Goethe, Marlowe rappresenta una posizione intermedia: con Marlowe, Faust è condannato, ma la sua storia acquista lo statuto di tragedia, non è più, per esempio, quella successione di vicende scurrili che raccontava, non molti anni prima, l’anonimo Faustbuch o Libro di Faust (1587).

Tra la prima e la seconda parte del capolavoro di Goethe ci sono tante differenze. La seconda è più simbolica, e anche più complessa, sia per la varietà di generi letterari che vi concorrono sia per il contenuto, con tanto di poteri demoniaci scatenati e di prodigi mirabolanti. Nella prima parte invece è tutto più realista.

A me piace di più la prima parte: Faust che, dopo aver conosciuto l’amore, diserta la notte di Valpurga perché il desiderio non lo appaga più; Margherita in prigione che si rifiuta di essere salvata da Mefistofele (tramite Faust) per rimettersi alla giustizia di Dio... Mi domando: è troppo eroismo per l’uomo di oggi? Io questo Faust e questa Margherita li salverei, certo. E scommetto che anche Dio li salverebbe.

Ma, appunto, forse un tale “eroismo” è troppo per i Faust e le Gretchen di oggi: per noi, insomma.