venerdì 25 aprile 2008

Lucia Roncareggi: "So il sole che perdo"

Un fratello morto ventenne è quanto basta a un mio amico per rifiutarsi di credere in Dio. In un libro appena letto ho appreso, invece, che un giovane studente, un tale Giulio, ha trovato la fede proprio nella passione e morte della sua ragazza, Lucia Roncareggi. Lucia, di Bresso (Milano), è stata stroncata da un tumore nel 1999, a soli 22 anni.

Il libro, Preparami la colazione, di Giorgio Bernardelli (Centro Ambrosiano, 2001), è scritto, in realtà, a quattro mani: infatti il racconto di Bernardelli si intreccia alle poesie di Lucia, trovate in un quaderno dopo la sua morte. Il sottotitolo del libro (Storia di Lucia che dà del tu a Dio) traduce bene il rapporto di Lucia con il suo Dio, un rapporto che spazia dalla guerra (“...ti odio, / amore”) alla pace (“...conosco solo le gocce del pianto, / eppure oggi forse / sono felice”). Un rapporto che approda, infine, alla speranza: “Quando una vita comincia / è perché deve finire. / Quando una vita finisce / è perché deve cominciare”.

Tutto molto escatologico. Io però, dovendo scegliere una tra le poesie di questo libro, alla fine mi sono deciso per quella che ha per titolo Malattia: una poesia di una Lucia umana, molto umana.

Malattia

Tuonò d’ombra
sulle mie verdi foglie,
teneri virgulti vergini di vita.
E vidi la mia esistenza come un lampo...
Mai nessuno seppe
il perché
di quel tarlo nascosto
nel tenero tronco.
Troppo presto tuonò,
troppo tardi ti amai.

E memore del tutto,
so il sole che perdo
ignoro quello che trovo...
ed ho già nostalgia...

venerdì 18 aprile 2008

Carver Country

“Una camioneta vieja con matrícula de Minnesota se detiene en un espacio vacío frente a la ventana. Hay un hombre y una mujer en el asiento delantero, dos chicos en el trasero. Esa gente parece agotada. Hay ropa colgada en el coche; maletas, cajas y otras cosas apiladas en la parte de atrás. Por lo que Harley y yo dedujimos más tarde, eso es todo lo que poseen después de que el banco de Minnesota se quedara con su casa, con su tocadiscos, con su tractor, con su maquinaria agrícola y unas cuantas vacas”.

Así comienza La brida, un cuento de Raymond Carver (1939-1988), uno de los doce recogidos en Catedral (Anagrama, 2001). Carver me gusta, pero este relato en particular me encanta. Releo ese primer párrafo y me encuentro con la ventana, filtro entre el personaje que narra la historia y la familia de Holits; con un tocadiscos, icono de la alegría secuestrada (como la radio portátil de Connie Nova, unas páginas más adelante); con la misma camioneta y las mismas maletas con que luego acabará la historia.

Los personajes de Carver, esos porteros, esas camareras, esas peluqueras a remolque de la mediocridad que pueblan lo que se ha dado en llamar Carver Country y que a primera vista parecen hamburguesas, tan carnales como inertes, son en realidad los ángeles buenos de nuestra sociedad sin alma. Qué distintos son un perdedor de Carver (un alcohólico, un divorciado...) y su equivalente en cualquier otro autor. “Son mi gente, no puedo ofenderles”, decía Carver de sus personajes.

Sabía de qué hablaba: había sido portero nocturno, había bebido desenfrenadamente hasta 1976, su primer matrimonio había terminado en divorcio.

Holits y su mujer Betty son dos típicos perdedores. Y sin embargo en su deriva vital hay grandeza: a pesar de su impotencia, de su desencanto, de su aparente trivialidad, quieren poner al mal tiempo buena cara y vuelven siempre a intentar hacer un papel digno en la vida. Con todo, al final se estrellarán de nuevo con la realidad, camuflada tras una engañosa cortina de bullicio y alcohol. Y sin despedirse de nadie dejan Arizona, con la misma resignación con que pocos meses antes han dejado Minnesota.

Para que, si no el cuento de Carver, al menos este post tenga un final feliz, me permito poner un poco de música. Sugiero oír Call Me When You're Sober, de Evanescence, un grupo que no es ni de Minnesota ni de Arizona, sino de Arkansas. Me ilusiona pensar que, desde Arizona, el bueno de Holits se dirige a Arkansas. Y que, como Carver, consigue mantenerse sober, sobrio, de allí en adelante. Yo quiero creer que a todos nos espera un recodo en el camino de la vida en el que, a pesar de toda nuestra experiencia anterior de fracasos, podemos vencer, podemos conseguir lo que nunca hemos conseguido, superar lo que siempre nos ha superado.

venerdì 11 aprile 2008

Ex compagni

Infuria su Veltroni, nella campagna elettorale in corso, l’aggettivo “ex comunista”, voce che il mio inconscio associa a una lontana lettura: Uscita di sicurezza, di Ignazio Silone. Adesso Uscita di sicurezza, bel libro che comprende, oltre al saggio omonimo, altri nove, tutti a sfondo autobiografico, è reperibile in un meridiano Mondadori, ma io l’ho letto in una vecchia edizione di Vallecchi degli anni sessanta.

Silone (1900-1978), affiliato al comunismo dal 1920 al 1931, ne è diventato poi un critico feroce. Nel 2000 è stata avanzata la tesi, non totalmente infondata, di un Silone spia fascista proprio in quegli anni di militanza comunista. Il caso vuole che un fratello di Silone, comunista pure lui, sia finito nel 1928 nelle carceri di Mussolini, dove è morto nel 1932. È fuori dubbio che Silone non ha tradito il fratello: al limite avrebbe cercato, tramite i suoi favori alla polizia politica fascista, di liberarlo.


Io in questo caso sono per la presunzione d’innocenza, ma in Uscita di sicurezza c’è qualcosa che mi lascia l’amaro in bocca, ed è una frase che Silone racconta di aver sparato a Togliatti qualche tempo dopo aver lasciato il PC: “
la battaglia finale”, così avrebbe detto, “avverrà fra comunisti ed ex comunisti”.

La trovata non mi piace. Silone, “socialista senza partito e cristiano senza chiesa”, come amava definirsi, sembra pensare all’ex comunismo appunto in termini di partito e di chiesa. Tutti siamo “ex” di qualcosa: ex mariti, ex mogli, ex preti, ex tifosi, ex vegetariani... E purtroppo il mondo attuale, che ha smarrito la virtù della fedeltà, ci spinge sempre di più in questo senso. Ma fare di una tale condizione una militanza mi sembra che rasenti il patetico. Ci sono, comunque, molte armate di “ex”: c’è, per esempio, o almeno c’era alcuni anni fa, il Club di ex fidanzate di Vittorio Sgarbi...


Alcune persone vivono la loro esperienza di adesione e distacco da un ideale con uno spirito bellico degno di cause migliori. Conoscono il “nemico” dall’interno e ritengono quindi socialmente decisiva la loro condizione di “ex”, il che significa spesso sbagliare tutto. Dopo la fine del comunismo nell’Europa orientale è chiaro che non sono stati gli ex comunisti a dare la “battaglia finale”. Anzi, se per battaglia finale Silone intendeva un’apocalisse del tipo di quella del nazismo, battaglia finale, grazie a Dio, non c’è stata.


Insomma, tra i “compagni” Silone e Veltroni preferisco quest’ultimo, che chiaramente ha integrato il proprio passato, pur lasciandoselo alle spalle, in qualcosa di costruttivo.


Certo, come scrittore preferisco Silone...

venerdì 4 aprile 2008

Caro imperatore (ancora altri greci)

C’è stato un tempo, nei primi due secoli della sua storia, in cui il cristianesimo ha parlato quasi esclusivamente in greco. Un tempo in cui anche il vescovo di Roma, quando doveva scrivere (san Clemente, per esempio), lo faceva nella lingua di Omero.

A quest’epoca appartengono una dozzina circa di scrittori che si sono segnalati nel genere apologetico. Di loro c’è una bella antologia curata dalla professoressa Clara Burini: Gli apologeti greci (Città Nuova, 2000).

Il più famoso è Giustino, il filosofo martire, autore di due Apologie indirizzate all’imperatore Antonino Pio. Altri sono Quadrato, che scrive a Adriano; Aristide e Atenagora, ateniesi, che si rivolgono a Adriano e a Marco Aurelio rispettivamente; il senatore romano Apollonio, accusato di superstizione ai tempi di Commodo, che redige un’autodifesa e ne fa un’apologia della fede indirizzata al senato (che comunque lo condanna a morte); Melitone e Claudio Apollinare, vescovi di Sardi e di Gerapoli, alle prese con Marco Aurelio...

Accusati di ateismo (per il loro rifiuto degli dei romani), di antropofagia (per l’eucaristia) e di incesto (per via della carità fraterna), reagiscono con la testimonianza di ciò che veramente sono diventati dopo il battesimo. “Un tempo amanti della lussuria”, scrive Giustino, “ora siamo desiderosi solo della saggezza; dediti un tempo alle arti magiche, siamo consacrati ora al Dio buono e ingenerato; bramosi più di ogni altro dei mezzi per conseguire ricchezze e possedimenti, ora, portando in comunità quanto possediamo, lo condividiamo con chi è bisognoso”. La forza persuasiva dell’etica cristiana, improntata all’amore, è per loro l’apologia più efficace su cui puntare.

Fa una certa impressione l’audacia con cui sfidano i loro interlocutori: “Coloro che sono al potere, se amano la gloria anziché la verità, hanno lo stesso potere dei ladri nel deserto” (“ma tu chi credi di essere?”, poteva dire Antonino Pio dopo la lettura di queste parole a lui rivolte da Giustino). Infatti, negli apologeti l’apologia va unita a una decisa proposta di conversione.

Per il resto, anche loro sono molto aperti alla cultura pagana. Secondo Giustino, figure come Socrate o Eraclito hanno partecipato nella loro vita —poiché vissuta con rettitudine— del Verbo rivelato e incarnato, anche se non lo hanno conosciuto: hanno portato quindi a frutto quei “semi di verità” presenti in ogni uomo e sono stati, per così dire, “cristiani prima di Cristo”.

Interessante questa dottrina dei semina Verbi. Il Papa l’ha commentata, tempo fa, in una catechesi su san Giustino. Non mi sembra tanto lontana, tutto sommato, dall’idea delle intuizioni precristiane esplorata da Simone Weil.